Il cantiere blu a Piscinola

I cantieri sono luoghi potenti e carichi di senso che esercitano uno strano effetto intorno a loro. Recintati, quasi sempre inaccessibili, ci dicono che qualcosa sta accadendo, un cambiamento, sicuro, che non sappiamo prevedere e che quasi sempre temiamo. Non basta quello strano disegno stampato sul cartellone affiancato alla legenda che indica nomi, cifre, date, quasi sempre sbagliate, a placare la nostra curiosità. La vita scorre apparentemente indifferente intorno a questi recinti; non manca mai un pensionato che si attarda ad osservare e a chiedere informazioni, ma poi le giornate scorrono rapide finché la nuova struttura sale e prende forma lasciando presagire la fine dei lavori e l’inizio inesorabile della vita che prenderà il sopravvento aprendo una nuova stagione di quell’opera fino a quel momento solo immaginata e disegnata dall’architetto.

E quando quei recinti vengono rimossi e le chiavi consegnate avviene, in pochi attimi, lo scontro frontale tra i luoghi progettati da un solo autore e la vita, i desideri, le storie di decine di persone diverse che si impossessano di quegli spazi per abitarli. Si tratta di un momento così poco considerato ma così importante e carico di simboli. E più il contesto è carico di contraddizioni e di tensioni, più il rapporto con i luoghi è marchiato da gesti forti, spesso violenti, che facciamo fatica a capire. A tutte queste cose pensavo camminando per un cantiere di case popolari a Piscinola, periferia estrema e degradata del Comune di Napoli, insieme a Cherubino Gambardella, progettista di questo nuovo intervento, e al direttore dei lavori.

La storia è esemplare: un concorso per nuove case popolari vinto dall’architetto napoletano nel 2004 e finalmente prossimo al completamento. Un insediamento composto da tre palazzi per ospitare 126 famiglie che in questo momento abitano in un unico edificio costruito provvisoriamente dopo il terremoto, e italianamente rimasto dov’era per almeno vent’anni. Il palazzo termitaio è li davanti a noi perché l’operazione è veramente interessante: costruire i tre nuovi edifici intorno al vecchio palazzo esistente e, una volta completati i lavori, trasferire le 126 famiglie nelle nuove case e abbattere il vecchio lasciando così un vuoto per nuovi spazi pubblici e un parcheggio sotterraneo. Il tutto con un costo medio al metro quadro sotto i 1000 euro.

Gli abitanti non hanno dovuto sbirciare tra le assi sconnesse del cantiere, perché loro hanno abitato dentro il cantiere vedendo sorgere a pochi metri dalle loro finestre le case che avrebbero poi abitato. Ma c’è qualche cosa di più che mi ha colpito, ovvero la strategia dell’autore, che considero uno degli architetti italiani più stimolanti, contraddittori e immaginifici della scena attuale, e che ha pensato a queste case proprio immaginando il giorno in cui gli abitanti sarebbero entrati.

Gambardella conosce a fondo Napoli, le sue tante storie e la tendenza che hanno sempre avuto i suoi abitanti di colonizzare gli spazi, di addizionare volumi, coprire terrazze e logge con nuove stanze, di abusare delle architetture trasformandole brutalmente e senza apparente riguardo per la storia degli edifici e figuriamoci per i suoi autori. Per questo ha deciso che il progetto di queste nuove case popolari avrebbe anticipato nelle intenzioni i suoi futuri abitanti riducendo al minimo dettagli e soluzioni, ma soprattutto predisponendo le logge, i balconi, le diverse bucature come elementi pronti per essere conquistati e modificati dai suoi abitanti. E prendendo consapevolmente questa decisione ha optato per un’unica soluzione linguistica che tenesse insieme tutto con forza e leggerezza.

Le tre palazzine appaiono costruite in maniera molto semplice, ma alle pareti coperte d’intonaco bianco si contrappone un unico elemento molto potente: un uso diffuso e inaspettato di piccole mattonelle blu che rivestono le facciate sul cortile interno quasi integralmente e che appaiono con ampi riquadri sui fronti esterni verso strada. Il blu cobalto che non ti aspetti in questa terra dura, che non concede aria e tempo alla bellezza, è una dichiarazione poetica e politica straordinaria che dichiara che le case popolari devono essere innanzitutto belle e civili, che rappresentano un elemento di resistenza in un territorio violato e degradato dalla storia e dalla malavita.

Camminare tra quelle case, entrare negli appartamenti appena completati guardando fuori a quel vergognoso termitaio in cui per vent’anni sono vissute 126 famiglie e percepire il riflesso blu contro quelle pareti prefabbricate che presto saranno demolite mi ha fatto sentire che produrre visioni potenti ed elementari con cui cambiare il destino e la casa di tante persone è la grande responsabilità dell’architettura oggi. Spazi dignitosi, case semplici ma con misure adeguate, uno spazio pubblico abbracciato di blu (l’unico spazio pubblico nell’arco di chilometri) un sistema di edifici che dialogano tra di loro invece che una caserma di 10 piani, tutti questi semplici elementi diventano segni, segnali, esempi di un modo diverso di abitare e vivere anche il territorio più abbandonato. Segnali agli abitanti che non torneranno più indietro, ai politici che vedranno che si può fare, alla Camorra che potrebbe trovare terreno meno fertile e degradato alla sua crescita. A Medellin, dall’altra parte del mondo hanno cominciato così, puntando sulla bellezza e qualità degli spazi pubblici nelle favelas più degradate, e gli è andata bene. Perché a Napoli non potrebbe succedere lo stesso?

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design