Frammento ordinario di piccolo Sud

Mi trovo a scambiare quattro chiacchiere con un giovane amico, seduto a un bar nella periferia più sperduta di Aversa, fuori è caldissimo, l’aria è densa di polvere e di quel sottile olezzo di monnezza mai completamente eliminata dal roboante mediatico governativo. Il ragazzo è neolaureato in architettura, è stato mio studente, e come spesso capita con altri nella sua condizione, mi chiede consiglio su come affrontare i primi passi nel mondo del lavoro.

Sono ormai passati diversi mesi dalla laurea conseguita con successo e soddisfazione, ma nulla sembra essersi mosso dopo quel giorno. Esiste la scusa velata dell’Esame di Stato da fare e che toglie tempo ed energie, ma si capisce subito dallo sguardo e dalle poche parole scambiate, che la speranza di trovare lavoro è pressoché inesistente e che il legame, quasi carnale, con la sua terra gli impedisce, al momento, di fare scelte più drastiche e di lontananza.

I mesi passano in una strana forma d’inedia fatalista che toglie energie e prospettive; il tempo scorre lento, si pensa a una specializzazione per procrastinare di qualche mese la ricerca e per darsi qualche possibilità in più; la tesi s’impolvera sotto il peso di un contesto indifferente e della sensazione che niente possa realmente cambiare il tuo destino.

Eppure il nostro Sud, oggi, potrebbe offrire occasioni importanti e innovative per dare uno scarto radicale a questa condizione e, insieme, un segnale forte a tutto il Paese: il riutilizzo dei tanti beni sequestrati alle mafie, la drammatica condizione del paesaggio e le pressanti crisi legate allo smaltimento, il consumo dissennato di territorio combinato a un uso dissennato delle risorse esistenti, lo stato desolante del patrimonio pubblico residenziale, scolastico ed ospedaliero, la cura di un patrimonio storico unico al mondo, sono solo alcuni dei settori in cui le amministrazioni pubbliche e alcuni intelligenti operatori privati potrebbero investire coinvolgendo i troppi giovani professionisti apparentemente senza alcuna prospettiva, e trasformando il Sud Italia in uno straordinario laboratorio sociale e civile a cielo aperto.

Invece nessuno sembra voler cogliere le potenzialità di questi temi, schiacciati dall’incombenza quotidiana di una gestione cronica di una crisi che sembra solo peggiorare. Mentre i costi sociali di questa situazione si riversano sulle famiglie che si trovano costrette a mantenere tanti di questi giovani prosciugando in silenzio i risparmi di una vita, e delle vite venute prima di loro, mentre le scuole non producono gli strumenti, gli antivirus, le visioni, diverse, di cui dovrebbero essere fornite le nuove generazioni per affrontare una situazione che peggiora e cambia continuamente.

Quello che racconto è un frammento ordinario di piccolo Sud, quello che io vivo da anni da professore universitario che ogni settimana migra da Milano a Napoli, e che vive in questo straordinario e paradossale micro-cosmo l’immagine deformata e convincente di un intero Paese che si è dimenticato, o, meglio, che non vuole considerare, le sue nuove energie, quei milioni di giovani che, se ben educati e considerati, potrebbero rappresentare una potente arma di reazione alla crisi, invece che un imbarazzante problema sociale e politico.

Mentre ascolto i racconti del mio amico aversano ripenso con dolore alla totale assenza della parola “giovani” dall’ultima manovra economica e dalle discussioni che l’hanno affannosamente accompagnata. E insieme rifletto sul fatto che, in questi ultimi anni, moltissimi dei giovani di talento, soprattutto meridionali, hanno imboccato la via della fuga dalla propria terra per aprire studi a Rotterdam, Barcellona, Parigi, Londra, Madrid, insieme a tanti colleghi conosciuti durante l’Erasmus. Questi studi funzionano, con fatica, ma stanno portando avanti i primi, interessanti lavori, a dispetto di quanti, nella loro stessa condizione, e rimasti in Italia, a malapena raccolgono la ristrutturazione del bagno della zia. Si tratta di una lenta, silenziosa emorragia d’intelligenze ed energie che il nostro Paese sta colpevolmente perdendo, indifferente a quello che potrebbero rappresentare per un futuro diverso. Si tratta di una codarda, consapevole offesa al nostro futuro, alla possibilità, reale, di mettersi in discussione offrendo semplicemente spazio, risorse, disponibilità ad una generazione negata. Qualche anno fa, con la farsa del rientro dei cervelli, si presero in giro centinaia di studiosi e giovani ricercatori che si scontrarono subito con un sistema accademico inadeguato e ostile, oltre che con un sistema del lavoro sclerotizzato da una crescente sindrome para-geriatria.

Il mio mondo, quello che attraverso, il mondo dell’architettura che in questi ultimi anni sta vivendo la fuga di tanti giovani all’estero, la chiusura di troppi piccoli studi soprattutto composti da neo-professionisti, la crisi drammatica di ottimi progettisti che non hanno più lavoro malgrado il talento e una preziosa esperienza accumulata negli anni, non è che una lente molto piccola e deformata di una condizione generalizzata e drammatica. Forse uno dei tanti frammenti che raccontano un Paese in crisi con se stesso e il proprio avvenire, quel Bel Paese in cui gli architetti da tutto il mondo vorrebbero lavorare almeno una volta, ma che ha la disarmante capacità di sperperare quotidianamente paesaggio materiale e un patrimonio di fresca intelligenza.

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design