Un regalo a se stessi

Cristina Campo conclude così il suo breve scritto intitolato Il Parco Dei Cervi:

I cervi chiusi nel parco, smarrito e leggiadro oggetto di occhi distratti, non si chiedono: perché non più liberi nella grande foresta, ma: perché non più cacciati? Qualche mano di bambino li accarezza: Re Artù è morto, spiegano ai cervi i bambini, e con lui cacce e tornei, prodigiosi duelli e santi conviti. Mai più un cervo sarà inseguito dai dodici Cavalieri, mai più porterà catena d’oro al collo, o fermerà la muta levando fra le corna la croce del Salvatore. Mai più sarà cibo il suo corpo alla cena del Santo Graal. Niente più vi minaccia, adesso, cari cervi ed ecco, dalle nostre mani avete il cibo e la bevanda. I cervi chinano il capo, battono con le corna leggermente il recinto. Ma di notte si chiamano l’un l’altro, dolcemente febbrili. Odono, o credono di udire, il corno di Artù. “Egli non è morto, si dicono, non è morto, ritornerà. E di nuovo la nostra vita sarà sospesa ad una punta di freccia”.

In quel perimetro misurabile in malinconia e odore stantio, sono rinchiusi non solo i cervi della scrittrice; qua e là si intravedono anche le idee, i sogni, gli amori, le ambizioni di tutti noi. Anche loro non più cacciati, anche loro non più sospesi a una punta di freccia.

Come ci siano finiti in quel recinto non è chiaro; e nemmeno chi abbia deciso di portarceli (se poi di decisione si trattò). Ma si sospetta fortemente di noi, noi gente di guado, ormai non più giovani e però non ancora vecchi. Come spiegare altrimenti che le chiavi del cancello siano ancora infilate nelle nostre tasche?

Anziché frugare in quelle tasche, lasciamo le braccia appoggiate e conserte sulla staccionata, ce ne stiamo lì con lo sguardo inebetito a guardare quelle armi deposte con cui un tempo andavamo a caccia di vita.

Idee detonate dalla loro carica di rischio, cuori che non scalpitano, segreti scoperchiati, sogni già desiderati. Così sazi di vuoto, deprivati dalla loro forza di volontà, fanno pena a vedersi mentre girano pigramente in tondo, senza sosta e senza direzione, come se il loro unico dovere fosse ricordare continuamente a se stessi della propria disillusione.

Ma che questa scena mesta non inganni. Nessuno ha desiderio di uscire, nessuno si sente uno sconfitto. Stanno bene lì in quella meta agognata e raggiunta, altro che stagno dell’anima.

Perché lasciare il parco? Perché cacciarsi nei guai volontariamente e ributtarsi in vita già vissuta? Perché riaccendere fuochi che verranno di nuovo spenti? Perché provare a innamorarsi di qualcuno di cui presto sappiamo ci disamoreremo un’altra volta? Perché allontanarsi per poi ritrovarsi di nuovo allo stesso punto in cui si è già?

No, meglio restare avvolti nella grande tiepidezza fisica e spirituale del parco, al di qua dei propri limiti, circondati e rassicurati da quel recinto di cose consuete e sperimentate.

Eppure San Giovanni nella sua Apocalisse mette in guardia: Dio vomita dentro la bocca dei tiepidi. Dio odia la mancanza di coraggio del tiepido, che non prova se stesso, che forse vorrebbe vedere ma desidera troppo le cose di questo mondo. Meglio addirittura la freddezza di chi non arde per lui, della falsa tranquillità e della sonnolenza dei sensi che trabocca in mortale letargo dei tiepidi.

La grande foresta rimane fuori al di là del recinto, incredula e inesplorata, come una scenografia di spettacoli che non verranno mai inscenati e con tutti i suoi ostacoli che nessuno sente più il desiderio di affrontare; con i suoi pericoli terribili incapaci di essere fiutati e con le sue trappole aperte che se ne stanno lì, pronte a non essere evitate; con il suo buio e i suoi altri mille misteri fissi nella loro immobilità ad aspettare di non essere scoperti.

Starne alla larga significa mortificare la propria vita, perché l’ignoto che la foresta simboleggia è la vita del mondo.

Dal recinto del parco, la meraviglia – intesa come capacità di stupirsi, come il principio di tutte le cose nuove – appare così distante da sembrare più una leggenda buona per chi crede alle favole e ai suoi draghi, orchi, streghe e principi azzurri, piuttosto che a un miracolo che può accadere realmente e in ogni momento.

Per arrivarci alla meraviglia è necessario passare attraverso la grande foresta, non c’è altra strada né scorciatoia. Bisogna ritrovare la voglia di affrontarne pericoli e difficoltà, inoltrarsi in strade sconosciute, correre il rischio di perdersi, spaventarsi, allontanarsi.

Occorre saper dubitare di ciò che già sappiamo e allo stesso tempo ricominciare a sperare in ciò che ancora non conosciamo. “Questa speranza” – dice Thomas Hobbes nel suo libro Della meraviglia e della curiosità – “questa aspettativa di una conoscenza futura che possiamo acquisire da tutto quello che ci succede di nuovo e sconosciuto è la passione che chiamiamo meraviglia”.

Beato chi sente quella passione e che ancora sa stupirsi di tutto.

Beato l’occhio che sa vedere l’invisibile. Beato l’orecchio che dalla parola detta riesce a percepire anche quella non detta. Beato il pensiero che non si stanca di cercare l’impensabile. Beata quella cosa banale scambiata per un’altra, più bella e interessante. Beata la sofferenza che viene usata come seme per far crescere la gioia.

Beati gli incontentabili, gli incontenibili e gli incoscienti, perché saranno i soli a udire il richiamo del corno di Re Artù e a rimettere le loro idee, i loro amori, i loro sogni e le loro vite sospese ad una punta di freccia.

Il recinto del parco dei cervi non è poi così alto e scavalcarlo sembra anche una cosa divertente da fare. Andare dall’altra parte della staccionata verso quello che non ci aspetta e del tempo da vivere come non mai, attraversare il confine che separa quello che è da quello che potrebbe essere, sarà come fare un regalo a se stessi senza rovinarsi la sorpresa.

Lorenzo De Rita

Vive ad Amsterdam, dove dirige The Soon Institute - un collettivo di inventori che sperimentano e sviluppano prototipi per la società che verrà. Ha aperto recentemente una casa editrice che pubblica libri difficili ed è il co-fondatore di jointhepipe.org