Nascondersi per trovarsi

 

Prima o poi capita a tutti i bambini che qualcuno chieda loro: “E da grande, cosa vuoi fare quando sarai grande?”

Ricordo quando, dodicenne, lo chiesero a me.

Fu durante un mega-nascondino, uno di quelli che eravamo soliti organizzare con i miei fratelli e gli amici nel cortile delle palazzine del comprensorio dove abitavamo. Essendo i fratelli sette e le palazzine intorno alla nostra anche più dei miei fratelli, si finiva sempre per essere una piccola moltitudine a giocare. Il che significava che il gioco non finiva mai e anche che i posti sicuri dove nascondersi erano difficili da trovare.

Ma di questo non mi preoccupavo. Già da molti nascondini avevo trovato il nascondiglio perfetto: la tromba dell’ascensore.

Andavo nel sottoscala del mio palazzo, scavalcavo la rete metallica di protezione messa intorno all’ascensore e mi accucciavo in un angolo, quasi sdraiato a terra, per evitare di essere schiacciato dalla cabina quando veniva chiamata al piano terra.

Lì nessuno mi aveva mai trovato. In effetti, era un posto cosi imbecille e pericoloso dove nascondersi che non era facile farselo venire in mente come possibile nascondiglio.

Decisi di nascondermi lì anche quel giorno. Corsi nel sottoscala, scavalcai la rete metallica e quando ero ormai dall’altro lato qualcuno mi urlò trattenendo la voce: “Vattene, ci sono io qua.” Era mio fratello Andrea. “Vattene tu, questo posto l’ho trovato prima io” gli risposi. Ma entrambi sapevamo che era troppo tardi per trovare un altro posto dove nascondersi; chi si era accecato ormai ci vedeva benissimo e stava frugando con lo sguardo dappertutto.

Così ci mettemmo lì ad aspettare come due lumache dentro lo stesso guscio. Il tempo passava senza che succedesse niente, ogni tanto qualcuno veniva beccato ma era lontano da noi, cominciavamo ad annoiarci, anche l’ascensore era fermo da molto tempo al secondo piano.

Mio fratello Andrea mi offrì una goleador alla liquerizia e cominciò a parlare. Esattamente non mi ricordo di cosa, qualcosa che aveva a che fare con Drazen Petrovic e suo fratello Aza. Drazen era l’idolo di mio fratello. Mi disse che voleva diventare come lui da grande, un mito del basket, e poi aggiunse: “Tu hai già deciso cosa vuoi fare da grande?”

Mi prese alla sprovvista, non ci avevo mai pensato a cosa avrei voluto fare o chi avrei voluto essere da grande. Non sapevo cosa rispondere e la goleador che continuava ad appiccicarsi in mezzo ai denti mi dava già il mio bel da fare. Poi, quasi senza volere e senza che passassero per i circoli nervosi del mio cervello, le parole uscirono comunque dalla mia bocca: “Voglio diventare un vescovo o, se non si può, un falegname.”

Avreste dovuto vedere la faccia di mio fratello. E anche la mia. Ero più sorpreso io di lui per quella strana risposta. Era come se quella risposta invece di averla solo data, l’avessi anche ricevuta. Come una cosa che era lì da sempre, ma che solo in quel momento era lì veramente.

Mi capita di ripensarci spesso a quel momento. L’ultima volta appena qualche giorno fa, mentre leggevo un meraviglioso saggio di Cristina Campo che s’intitola IL FLAUTO E IL TAPPETO. A un certo punto si legge:

[…] La scena del destino è concava, tacita e risonante, come la cassa di un prezioso strumento; è il liuto sospeso di Poe. Vi erano luoghi, una volta, dove la gente si ritirava “per veder chiaro in se stessa”, il che non mi sembra significhi altro che riaddestrare l’orecchio al sussurro affilato del flauto, al sordo allarme della spola […]

Quella tromba d’ascensore fu la cassa del mio liuto sospeso; magari meno poetico come luogo, ma ugualmente prezioso. Non sono diventato un vescovo e nemmeno un falegname, ma quella risposta mi rassomiglia – o io sono finito per rassomigliare a lei – molto più di quello che potrebbe sembrare e mi ha condizionato e guidato in tutte le scelte che mi sono trovato a prendere da lì in avanti.

Sono stato fortunato a essermi ritrovato in quella concavità tacita e risonante. Oggi dubito, purtroppo, che un dodicenne possa avere la stessa fortuna. La scena del nostro destino è diventata convessa, sorda e ridondante. I luoghi dove poter veder chiaro in se stessi sono stati demoliti dalla fretta e dall’ansia di farsi vedere dagli altri. I sussurri del flauto sono stati travolti da quella fanfara di suoni e pensieri sguaiati di chi parla troppo e ascolta poco, di chi desidera tutto e non vuole niente.

Ci sono ancora i suoni affilati, ma non li sappiamo più sentire tappato com’è l’orecchio della nostra anima. Riaddestrarlo ai sussurri non sarà facile se continueremo a barattare il nostro fato con il caso, il nostro destino con il suo capriccio. Uno scambio senza senso, letteralmente, perché destino significa destinazione, direzione, andare verso ciò che è stato deciso.

Perdere il destino questo vuol dire: perdersi. Vagare da un desiderio all’altro, accontentarsi di sognare i sogni degli altri, inseguire soldi o fama o altre piste false, fare un lavoro che non c’entra niente con noi, non saper riconoscere la persona da amare. Vivere a casaccio, insomma.

Ridare ai giovani il senso del loro destino, luoghi per vedere chiaramente in se stessi, sensibilità per interpretare segnali misteriosi e decifrare segreti, fiuto per stanare il proprio talento e orecchio per percepire i movimenti del proprio destino così da poterlo seguire anche quando intorno a loro e dentro loro è nebbia fitta – dovrebbe essere il progetto cui ciascuno di noi dovrebbe dare priorità, risorse e attenzione.

Pensate che bello sarebbe: uscire per strada e incrociare solo persone che sanno esattamente chi sono; che non gli importa di essere riconosciute dagli altri, ma solo di riconoscere se stessi; che sentono di essere unici e irripetibili e fanno di tutto ogni giorno per esserlo o diventarlo.

Da dove si comincia? Cristina Campo ha un suggerimento: “Sottrarsi al gioco delle circostanze affinché nulla ci raggiunga, fuorché l’inevitabile.”

Che è un po’ come nascondersi dagli altri per gioco e finire per trovare se stessi.

Lorenzo De Rita

Vive ad Amsterdam, dove dirige The Soon Institute - un collettivo di inventori che sperimentano e sviluppano prototipi per la società che verrà. Ha aperto recentemente una casa editrice che pubblica libri difficili ed è il co-fondatore di jointhepipe.org