Da tre mesi in qua.

Non lo sapevo, anche se in certi giorni d’indecisione acuta e di totale confusione mentale l’avevo sospettato: io non sono un Io. In realtà, sono un Noi.

A sentire le teorie di Paul Bloom, uno psicologo e professore di Scienze Cognitive della Yale University, sembrerebbe che all’interno della mente di ciascuno di noi, viva una moltitudine di persone; piccoli Io che da mattino a sera (ma anche di notte) baccagliano uno con l’altro tra le pareti del nostro cranio per conquistarsi il diritto di dirci come la dobbiamo pensare su questo o quello, e a imporci la loro idea su cosa sia meglio fare o non fare.

Sparsi nei vari lobi dell’emisfero destro e quello sinistro del nostro cervello, ognuno di questi Io combatte per conquistarsi la responsabilità (loro preferirebbero dire il comando) del nostro agire e pensare.

C’è l’Io che controlla la nostra sensibilità e quello che si preoccupa di piacere agli altri; quello che scialacqua senza badare a spese e quello che invece ha il braccino corto; quello compassionevole e quello che pensa solo a divertirsi; quello che ha paura di tutto e quello che invece sogna in grande; quello diffidente, quello furbo, quello silenzioso, quello speranzoso. Ce ne sono anche alcuni di cui ci vergogniamo e che non vorremmo fossero lì come parte di noi e altri che invece si nascondono perché sono loro a vergognarsi di noi.

Da quasi tre mesi, temo, il mio Io nichilista ha messo  in riga tutti i miei altri Io. Lo capisco dalla difficoltà che ultimamente provo nel tradurre in azioni ciò che penso. E, col passar del tempo, le cose non accennano a migliorare.

Dopo lunghe e complicate trattative sono riuscito, in esclusiva per Il Post, a convincerlo a rilasciare questa intervista che vi ripropongo qui di seguito.

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Intanto vorrei ringraziarti per aver accettato di farti intervistare, anche perché so quanto ti costa. Come prima cosa vorrei chiederti una cosa un po’ personale: da tre mesi non riesco più a scrivere, come mai? Non che sia un problema enorme, ma alcuni lettori mi hanno chiesto cosa mi fosse successo e come mai non si veda più un mio articolo su questo giornale; e anch’io mi domando del perché ultimamente io mi metta lì, cominci a scrivere qualcosa, e dopo poche righe mi sento come se quello che stessi scrivendo fosse privo di senso e finisco per lasciar tutto a metà.

Lo so. E mi dispiace di questa situazione, non tanto per te, quanto per quelle persone che hanno piacere a leggere quello che scrivi. Però, senza che tu faccia il finto tonto, se ti trovi in questa situazione di paralisi, la colpa è più tua che mia, o comunque di quello che succede là fuori piuttosto di quello che succede qua dentro.

Che c’entro io? Non sei tu a decidere? E poi io non sono te, e tu sei me?

E bravo, buttala in caciara come al solito e non risolverai mai niente. È ora che cominci a prenderti qualche responsabilità, sai. Mai sentito parlare di “default mode network”?

Sinceramente, no.  Immagino che il mio Io che si occupa delle nozioni scientifiche non è proprio il più popolare tra di voi…

Immagini bene. Le “default mode network” sono delle aree neurali presenti nel cervello che entrano in funzione solo quando la mente si riposa. È lì che si creano i nuovi pensieri, la fiducia verso se stessi e verso gli altri, i sogni ad occhi aperti… Ma se si ha sempre troppo da fare queste aree non si attivano a causa di uno scorretto funzionamento del recettore 1A della serotonina che impedisce al cervello di entrare in modalità stand-by. Un difetto di funzionamento che si riscontra tipicamente nelle persone affette da depressione, che difatti vivono in uno stato di costante ansia e agitazione.

Vuoi dire che se non riesco a scrivere è perché sono depresso o perché ho troppo a cui pensare? Mi sembra una banalità enorme. Che ne pensa l’Io che regola la mia ambizione?  Possibile che non dica nulla, non si sarà mica fatto impressionare dal tuo disfattismo?

Con quello lì io non parlo, e non dovresti farlo nemmeno tu almeno per un po’, che invece di aiutare complica le cose, credimi. Poi, sinceramente, è la tua reazione a essere banale, e anche scontata e vanitosa. Il problema qui non sei tu che non riesci a scrivere. Il problema è che lo stato d’animo in cui ti trovi sta diventando lo stato d’animo generale. La “default mode network” della nostra società sembra essersi inceppata, serrata a doppia mandata, lasciandoci senza fiducia in noi stessi come collettivo, incapaci di guardare avanti ma anzi con lo sguardo rivolto al passato, a quello che si conosce già, che fa meno paura di quello che non si conosce ancora. Basta darsi un’occhiata in giro: le vetrine dei negozi mettono in mostra oggetti dal design “vintage”, “originals”, “revisited”; le strade sono piene di auto e moto ispirate, se non copiate, agli anni ‘50/’60. E anche in politica la nuova generazione è più occupata a rottamare la vecchia generazione che a proporre politica innovativa.

Senti, io volevo solamente sbloccarmi e pubblicare un articolo su questo blog, non un trattato di sociologia. Ci stiamo ficcando in un guaio, me lo sento. Se continuiamo così, tra depressioni collettive, attività neurali e torcicolli sociali, il popolo dei commentatori di post ci tritura fini fini per eccesso di superbia intellettuale. Sperando che ci passino questo delirio di io, me e me stesso…

Io fossi in te quest’ansia me la risparmierei. Ma parliamone, se proprio vuoi. Perché i commenti sono una metafora di quello che sto cercando di spiegare. Viviamo in un brusio continuo. Tutto quello che si dice o scrive viene commentato, e poi si passa a commentare i commenti. E così via, in un chiacchiericcio che assorda, fatto di opinioni che non spiegano, ma che invece impediscono di ragionare e, soprattutto, tirano la discussione troppo in lungo; non perché le cose da dire siano tante, ma solo per la strizza di ammettere di non avere niente da dire.

Come ex pubblicitario conosco bene quel meccanismo di brusio costante, quel sapore di brodo allungato. Insomma se ho capito bene, quello che t’infastidisce è il troppo, la mancanza di ritmo, l’assenza della pausa riflessiva. 

Prova a stare in una stanza dove tutti vogliono dire qualche cosa e tutti allo stesso momento. Dove tutto è importante allo stesso modo. Dove tutti pensano di avere ragione. Dove a tutti, dopo aver detto la loro, non interessa niente di quello che hanno detto, ma solo di rispondere a quello che qualcuno dirà su quello che hanno detto. La nostra società ci passa tutto il giorno in quella stanza. In un ambiente del genere il discorso generale diventa una melassa appiccicosa e senza consistenza. La distrazione sistematica sostituisce la comunicazione. Le idee sono usate come trofei di cui vantarsi e non come propellente per il bene comune. Il tempo si attorciglia in un ammasso di secondi indistinguibili uno con l’altro.

E allora la soluzione qual è? Uscire da questa stanza, starsene zitti e non fare più niente?

Uscire dalla stanza non si può. E se anche si potesse, sarebbe la cosa sbagliata da fare. Perché la soluzione non è all’esterno della società, ma al suo interno; così come non è nell’aspettare che gli altri intorno a noi cambino, ma è nella responsabilità di ciascuno di noi di decidere di fare qualcosa affinché le cose cambino. Dobbiamo cominciare a selezionare dal tutto, solo alcune cose. Resistere alla tentazione del sempre di più e trovare il coraggio di fare a meno, invece. Riconoscere l’inutile e il non necessario e non appropriarsene. C’è bisogno di mettere le cose in sequenza, andare a caccia dei capi e delle code delle cose. Dobbiamo trovare la successione di Fibonacci delle nostre giornate sproporzionate e per questo brutte e sciatte. E in quella riconquistata proporzione ritrovare il sentimento e l’abitudine alla bellezza. Quando ci riusciremo, verranno i bei tempi. Ed io, finalmente, potrò andare in pensione e ritirarmi da qualche parte nella regione parietale del tuo cervello e lasciare il campo a qualche altro tuo Io più  incline all’illusione.

E proprio da me bisognava cominciare? Non poteva essere qualcun altro a dare il buon esempio?

L’idea non è stata mia. Vista la confusione in cui ti eri cacciato, circa tre mesi fa ci siamo visti un po’ di noi nell’area di Broca, per discuterne un po’. C’eravamo io, il tuo Io asociale, il tuo Io ipercritico e poi ci ha raggiunto anche il tuo Io teorico. Adesso non ricordo chi di noi abbia tirato fuori la tua passione per Cristina Campo, però…

Che c’entra ora Cristina Campo?

Dovresti ricordarti quello che diceva di se stessa: “Ha scritto poco, e vorrebbe aver scritto meno”.

Magari avessi la sua “coraggiosa chiarezza”. Senti, so che hai un’agenda piena d’impegni e che devi scappare. Prima di lasciarci permettimi di ringraziarti ancora per averci aiutato a capire che ci passa per la testa e per avere, in un modo o nell’altro, contribuito a sbloccarmi.

Sono io che ringrazio te. Rimarrei volentieri a rispondere alle tue domande, ma ho un appuntamento con il tuo Io esibizionista. Insieme, stiamo organizzando una mostra d’arte al contrario: invece che mostrare al pubblico le nostre opere, gliele nascondiamo, facendo di tutto per impedirgli di vederle. Una provocazione per quelli che vanno nei musei, si mettono a guardare tutte le opere una ad una, ma non vedono niente, perché non sanno vedere se non quello che è di fronte ai loro occhi.

Sembra coerente con quello di cui abbiamo parlato. Magari, ora che mi sono sbloccato verrò a vedere la vostra mostra e la recensirò nel prossimo post. Salutami tutti gli altri Io lì dentro, specialmente l’Io che non vuole essere me.

 

 

 

 

 

 

 

Lorenzo De Rita

Vive ad Amsterdam, dove dirige The Soon Institute - un collettivo di inventori che sperimentano e sviluppano prototipi per la società che verrà. Ha aperto recentemente una casa editrice che pubblica libri difficili ed è il co-fondatore di jointhepipe.org