Pietà per Dylan

Oh Mercy (1989)

(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).

Broken lines, broken strings. Broken threads, broken springs.
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.
Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.

Scusate, sono un po’ in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c’è puzza – dovrei telefonare all’amministratrice ma mi si è rotto il telefono – il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell’auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po’ di bronchite. L’elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c’è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall’Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c’è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l’unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev’essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall’Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d’inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l’altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c’è una stanza, io lo so che c’è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare – sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un’autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.

Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin’:
Everything is broken


Si è rotto anche il cuore di Tom Petty, troppo presto a mio parere. Forse non sembrerebbe così assurdo se Dylan non fosse ancora in circolazione – pubblica dischi, ritira premi – la vera notizia non è un rocker sessantenne che muore, ma Dylan che si ostina a sopravvivere. Lista di rockstar vive nate prima del 1942: Bob Dylan, Charlie Watts, Ringo Starr, David Crosby, altri in mente non mi vengono. Dylan ha iniziato a seppellire colleghi quando aveva vent’anni, e non ha mai smesso. Ha debiti infiniti con gente che non verrà più a riscuoterli, e Chronicles a volte dà l’impressione di essere proprio questo: il libro dei debiti morti e coi vivi. Tom Petty era uno dei due artisti più giovani a comparire in bilancio: a metà anni Ottanta i suoi Heartbreakers lo avevano raccolto con il cucchiaino e rimesso in sesto. “Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio”. Con gli Heartbreakers ritrovò la voglia di suonare dal vivo, ed è curioso che non esista un disco live che documenti l’evoluzione dei loro concerti tra il 1986 e il 1987 – un’ottantina di date. Per dire, coi Grateful Dead ne suonò soltanto sei, e di quel tour abbiamo il disco (purtroppo). Magari è solo un problema di diritti. In realtà anche Petty, quando incrociò Dylan, era un po’ appannato e bisognoso di visibilità. E le cose cominciarono a girare per entrambi soltanto quando presero un po’ il largo: anche grazie a Dylan, Petty incontrò Jeff Lynne, mentre Dylan un giorno si ritrovò nello studio di Daniel Lanois.

What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been

Quando ero giovane mi si rompeva tutto perché mi piacevano le cose usate (è un modo elegante di dire che ero taccagno). Il mio primo giradischi, mi ricordo, era amplificato con due vecchie casse per automobili – io vivevo sopra un’auto-officina e avevamo un cortile pieno di quelle cose un po’ rotte un po’ no. Queste casse a volte vibrando finivano per cascare sul giradischi segnando orribilmente i vinili. A un certo punto mi ruppi e comprai un impianto stereo, col lettore CD. Era già il 1989 e io non avevo davvero l’intenzione di mettermi a comprare CD (costavano il doppio delle cassette, maledette major, gli mp3 ve li siete cercati) ma intendevo copiare tutti quelli dei miei amici. In questo modo comunque cominciarono a entrare nella mia camera molti CD, e cominciai ad ascoltare la musica in un modo diverso. Prima alzavo il volume e amen, sperando che verso l’alto il canale sinistro e quello destro avrebbero trovato un loro equilibrio, e che i bassi non facessero cascare qualche libro da una mensola. Ma verso la fine degli anni Ottanta cominciai ad ascoltarli a un volume molto basso, mentre studiavo o leggevo o pensavo o facevo finta di. Il cd all’inizio aveva qualcosa di magico: potevi abbassare il volume finché non si sentiva nulla: col vinile la puntina continuava a gracchiare qualcosa, col nastro c’era qualche altro rumore (le testine?), il cd invece scompariva del tutto – solo se accostavi l’orecchio udivi qualcosa di simile a un piccolo sputacchio. A quel punto gli eroi del rock, quelli che mi avevano urlato nelle orecchie per gli ultimi cinque anni, potevano improvvisamente esprimersi sottovoce, come amici venuti a trovarmi. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quell’anno due vecchi fracassoni uscirono con dischi confidenziali: Lou Reed pubblicò New York, Bob Dylan Oh Mercy. Non avevano mai cantato così piano. Ma forse prima non avevo la rotellina del volume. Sul serio, fino al 1989 non osavo toccare troppo certe rotelline, mi si rompeva tutto, oh, per carità.

Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time

Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere – il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c’è rimedio. In uno degli scaffali c’è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c’è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni – dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l’ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d’incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh, merda.

Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.

Bono al Live Aid nel 1985

È il momento in cui in una leggenda apparirebbe un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c’è stima reciproca – forse perché Bono è l’unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l’apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.

Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you

Daniel Lanois è coetaneo di Tom Petty. È canadese (sua sorella suonava nei Martha and the Muffins), ma da un po’ di tempo lavora nelle paludi della Louisiana: il che significa che Dylan, imbeccato da Bono, tornerà a Sud per l’ennesima volta. Dieci anni dopo aver lavorato con Jerry Wexler; venti esatti dopo Nashville Skyline: è come se ogni dieci anni Dylan sentisse il richiamo delle paludi. Ma quello che cerca davvero a sud non sono le atmosfere decadenti o la retorica del sottosviluppo: a Sud di solito Dylan ci va per trovare dei musicisti professionali (ricordiamo anche Leon Russel ai tempi di Watching the River Flow) e dei produttori al passo coi tempi. In effetti il racconto che sto leggendo non è così credibile; nell’88 Lanois non era un nome sconosciuto che Bono ti passa dopo una bevuta: tra gli ultimi dischi a cui aveva lavorato c’erano So di Peter Gabriel e The Joshua Tree. Tutt’un’altra idea di anni Ottanta, rispetto per esempio ad Arthur Baker: il ritorno degli strumenti acustici, dei suoni caldi – ma riprodotti con una tecnologia all’avanguardia e quindi insolitamente vicini all’orecchio dell’ascoltatore: cos’ha in comune il Peter Gabriel di Don’t Give Up e il Bono di With or Without You? Sembra che siano usciti dallo stereo e stiano cantando direttamente in camera tua. Non sono uno spettacolo lontano e artefatto, sono tuoi compagni di stanza e sono disperati, vogliono strapparti il cuore. È come se in mezzo a tutte le strumentazioni escogitate dagli ingegneri del suono negli anni Ottanta, tutti gli artifici e i bip e i clang, Gabriel e Lanois avessero finalmente trovato il tasto EMOZIONE, e avessero deciso di spingere solo quello (Lanois aveva anche un debole per il tasto TREMOLIO). Oh, pietà.

Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride

Lanois aveva reso la voce di Bono l’assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l’aria dell’ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l’espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l’anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire “Man in the long black coat”, “Disease of conceit”, “What good am I?” o “Most of the Time”. Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di “disease of conceit”, che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.

There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit…

All’inizio sei propenso a considerarla un “disagio dell’orgoglio”, di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità, bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.

There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet – about the disease of conceit. 

Pare che si tratti di una cosa per cui non c’è cura – i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la “politica” di Political World sembra non essere proprio “politica” in senso stretto – a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina “la politica è una cosa sporca”, e in effetti un po’ già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni ’80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. “Io non c’ero”,  dice di Political World. Non l’ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L’ha scritta – di getto – perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l’aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po’ di pietà?

Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: “Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of WarGirl from the North Country With God on Our Side“. Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch’io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.

Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz’altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c’era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un’impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c’è quel miracolo che riscatta tutta la storia – ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse… si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l’ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant’anni, che è persino capace di produrli – lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com’era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev’essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli – quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un’insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro – per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente!

Ci sono vari motivi per pensarla così. Political World, se non fai troppo caso al qualunquismo del testo, è un pezzo tirato e senza fronzoli come non ne faceva da anni. Ring Them Bells è una versione tascabile di Chimes of Freedom, una preghiera che scalda il cuore. What Was It You Wanted è un elegante blues in minore in cui Dylan cerca di esprimere il disagio di un VIP davanti a chiunque gli stia chiedendo qualsiasi cosa – quel momento particolare, spiega, in cui bisogna inforcare gli occhiali scuri e fregarsene. Shooting Star è la ballata a cui spetta l’ingrato compito di terminare un disco in cui metà delle canzoni potrebbero essere canzoni finali – eppure ci riesce: è semplice e toccante il giusto. Insomma Lanois ha fatto davvero miracoli – specie se si pensa a cosa aveva combinato Dylan in studio nei cinque anni precedenti.


Io sapevo cosa stava cercando. Stava cercando canzoni che mi definissero come persona, ma quello che io faccio in studio non mi definisce come persona. Ormai si sono accumulate troppe migliaia di pagine a caratteri di stampa troppo piccoli perché una cosa del genere possa accadere. Ma come cantante mi stava aiutando. Come cantante, puoi anche morire se non hai microfoni e altopalranti giusti, e Lanois faceva del suo meglio per trovare le giuste combinazioni. Di solito, quando lasciavo lo studio a notte fonda, ero in uno stato d’animo piuttosto freddo. “Danny”, gli dicevo qualche volta, “siamo ancora amici?”


Chronicles I racconta una storia diversa. Meno epica, più complicata, come sono le storie di amore e di lavoro se le osservi troppo da vicino. Tanto per cominciare, il disco non vendette un granché, anche perché uscì troppo presto, mentre Dylan and the Dead e soprattutto il disco dei Wilburys erano ancora in classifica: certo, fu recensito meglio di entrambi, ma “le recensioni non vendono i dischi”. Peraltro i vecchi critici non furono tutti così entusiasti, ed erano gli unici di cui Dylan forse si fidava – anche quando lo stroncavano, o forse proprio perché avevano osato farlo quando era ancora un Dio in terra. Per Greil Marcus, Dylan si era ridotto a un attore ammaestrato da Lanois: quest’ultimo tracciava bersagli col gesso e Dylan doveva centrarli. È un sospetto che circolò parecchio: la sensazione che in Oh Mercy Lanois abbia preso il sopravvento, con la sua ossessione per i riverberi e i tremolii e le atmosfere. Eppure Dylan ha stimato davvero Lanois, lo ribadisce a ogni pagina: e un giorno avrebbe desiderato di nuovo lavorare con lui (ma dieci anni dopo…) Si è fidato di lui anche quando non era il caso. Gli ha lasciato tentare tutte le strade, comprese quelle che sin dall’inizio gli sembravano impraticabili. Ha lasciato che Lanois prendesse Dignity e la inzuppasse in un’orchestra cajun, e il risultato è che Oh Mercy è uscita senza Dignity. Ha capito cosa intendeva Lanois quando gli chiedeva di stravolgere Series of Dream come un calzino, ma sapeva che non avrebbe funzionato e il risultato è che Oh Mercy ha fatto a meno anche di Series of Dream. Oh, misericordia.

What good am I then to others and me
If I’ve had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been?

Anche Political World ha rischiato grosso; quanto a Everything Is Broken, Lanois la considerava un riempitivo e parliamoci chiaro: queste ultime due canzoni, sconsideramente piazzate nel primo quarto d’ora, sono le uniche un po’ mosse di tutto il disco, che da lì in poi sembra davvero galleggiare alla deriva in una palude notturna; è suonato benissimo, è prodotto da dio ma è leeeeeeento, uno di quei dischi che ti domandi se l’hai mai ascoltato tutto da sveglio. Sul serio: qual è il senso degli ultimi quaranta secondi di What Good Am I, una canzone che sembra procedere alla cieca, nel buio, in cerca della sua melodia (e Chronicles conferma questa sensazione)? Converrà abituarsi – Dylan ha fatto dischi anche molto brutti fino a qua, ma non erano mai veramente noiosi. Da Oh Mercy in poi la qualità non sarà più un problema; in compenso la noia comincerà a visitarci più spesso. Forse questo rallentamento non era l’intenzione iniziale di Lanois (all’inizio aveva pur cercato di mettere un ritmo funky in Political World), ma soltanto rallentando le cose lui e Dylan riuscirono a trovare un compromesso. Lo trovarono per esempio in Man in the Long Black Coat, un ritorno di Dylan ai misteri del folk, che si adattano perfettamente alle brume strumentali lanoisiane (anche se Dylan canta con troppa sicurezza, troppa presenza, un’attitudine declamatoria che non è la sua), e in quel capolavoro poco conosciuto che è Most of the Time, una delle composizioni più geniali di Dylan, per il modo in cui riesce a confessare i suoi rimpianti d’amore mentre li nega ad ogni verso.

Most of the time I’m halfway content
Most of the time I know exactly where it went
I don’t cheat on myself, I don’t run and hide
Hide from the feelings that are buried inside
I don’t compromise and I don’t pretend
I don’t even care if I ever see her again
Most of the time

Per una coincidenza, o per Zeitgeist, il pubblico cominciava a essere pronto per un disco di Dylan quasi sussurrato. Perlomeno eravamo pronti noi che cominciavamo a invitarci, la sera, nelle reciproche camerette, e versarci del vino e ascoltare qualcosa di tranquillo in sottofondo. Ma in realtà era troppo presto. Stavamo soltanto giocando a fare gli adulti, e di lì a poco ci saremmo stancati, avremmo di nuovo alzato il volume a undici. Anche Dylan.

Seen a shooting star tonight
And I thought of me
If I was still the same
If I ever became what you wanted me to be
Did I miss the mark or overstep the line
That only you could see?
Seen a shooting star tonight
And I thought of me

Nel racconto southern gothic che ho trovato nella biblioteca di Babele – e che corrisponde, fin qui, al quarto capitolo di Chronicles, un bel mattino Dylan si sveglia e decide che non ne può più della Lousiana, di Lanois, di questo disco che non riesce a prendere forma. Tira giù dal letto sua “moglie” – che menziona soltanto in questa circostanza senza chiamarla per nome – e parte sulla sua Harley Davidson. Sì, perché in Louisiana Dylan si è procurato una Harley, dopo aver visto quelle che Lanois e la sua crew tenevano nel cortile dello studio. Uno dei tecnici del suono aveva fatto venire per lui dalla Florida una Police Special del 1966 (di tutti gli anni possibili, proprio il 1966). “Aveva il telaio rivestito con una sabbiatura di pigmento e resina, raggi di acciaio inossidabile, cerchioni e mozzi sabbiati in nero, tutti i pezzi originali e andava che era una meraviglia”. Così un bel giorno Dylan carica la moglie e decide di scappare da quell’inferno umido. Magari vuole solo fare una scampagnata di due giorni, conoscere qualche tizio pittoresco, farci una chiacchierata, schiarirsi le idee…

Ecco cos’era: io non avevo intenzione di esprimere me stesso, tutte le mie maniere erano intatte così come lo erano da anni. Non c’era molta possibilità di cambiare ormai. Non avevo bisogno di scalare un’altra montagna. Se mai, quello che volevo fare era assicurarmi di essere ben piantato lì dove stavo. Non ero sicuro che Lanois l’avesse capito. Credo di non averglielo mai spiegato, non riuscivo a trovare le parole per dirlo.

…ma al primo incrocio, la moto sbanda ed esplode. Bob Dylan muore sul colpo. La moglie si sveglia dal coma solo due settimane dopo e non ricorda l’incidente (ricorda invece di essere la vedova Dylan, ma nessuno le crede). Oh Mercy viene pubblicato postumo, con la versione funky di Political World e tanti altri piccoli accorgimenti di Lanois che Dylan non può più contestare. È ovviamente un successo planetario. Il racconto termina con una piccola coda. Nel suo superattico a New York, Bono si gusta una Guinness mentre ascolta Most of the Time. È una canzone che fa venire i brividi, anche se in effetti in qualche passo l’arrangiamento ricorda un po’ All I Want is You, la sigla in coda a Rattle and Hum. Bono piange dall’emozione, dalla commozione, anche un po’ dal rimorso, insomma frigna come una fontana.

“Non fare così Paul”, dice dalla penombra un uomo che non si è ancora tolto il lungo soprabito nero.

“Abbiamo fatto qualcosa di orribile, Daniel”.

“Abbiamo fatto qualcosa di magnifico”.

“Ma anche di orribile. Abbiamo ucciso Bob Dylan”.

“Era già morto, Paul”.

“È solo un modo di dire”.

Era morto nel 1966, sul Glasco Turnpike. Quel che era sopravvissuto era uno zombie. Un’anima in pena. Era rotto, irriparabile, in attesa che qualcuno lo portasse via. Abbiamo fatto la cosa giusta. Abbiamo avuto Pietà”.

“Quella moto…”

“L’abbiamo fatta venire apposta dalla Florida. Una Police Special del 1966. Lo sai che mi piace lavorare con strumenti d’epoca. Mi ci trovo a mio agio”.

“A volte mi fai paura”.

“Abbiamo salvato un’anima in pena. Gli abbiamo restituito la sua grandezza. E gli abbiamo dato la fine che aveva sempre cercato. Più di così non potevamo fare”.

“Non lo so… forse potevi…”

“Cosa?”

“Aggiungere qualche pezzo un po’ più movimentato, ecco”.

“Vaffanculo Paul, la prossima volta mandaci Brian Eno, vuoi? vediamo cosa combina lui, vediamo”.

“Oh, fammi il favore”.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1, 1989: Oh Mercy1990: Under the Red Sky, Traveling Wilburys Vol. 3).

 

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.