Cominciando a scavare (negli anni Ottanta)

Down in the Groove (1988, ma registrato l’anno prima)

(Il disco precedente: Knocked Out Loaded
Il disco successivo: Dylan and the Dead…)

L’altra sera mi hanno mandato a prendere due cose al mcdonald e niente, mentre ero in coda ne ho approfittato per riascoltarmi uno dei dischi di Bob Dylan che frequento di meno, più per pregiudizio che per altro: Down in the Groove. Dopo un po’ mi sono accorto di una cosa effettivamente incredibile: Dylan stava cantando Rank Strangers to Me, ovvero l’ultimo brano – per dire quanto può essere lenta la fila al McDrive di Carpi, è una vergogna, andate da Scazza. Mezz’ora di coda e poi ti chiedono di ripetere l’ordine – e una volta su due si scordano il dessert nell’happy meal – prima dell’alternanza scuola-lavoro queste cose non succedevano. In compenso, per la prima volta nella mia vita, ho ascoltato davvero il tanto bistrattato Down in the Groove. E ho scoperto, indovinate un po’? Che è un capolavoro?

groove: 1. scanalatura, incavo, solco, canale, traccia; (Mineralogia) galleria, pozzo.
2. (senso figurato) routine, tran-tran.
3. La parte centrale dell’area di strike nel baseball, dove è più facile colpire il lancio.
4. ritmo particolarmente marcato e piacevole (Dal Wikizionario).

Proprio così.

E la copertina, mi raccomando, sfuocata e sgranata.

E la copertina, mi raccomando, sfuocata e sgranata.

Proprio quando tutti ormai lo consideravano finito, bollito, al tappeto, la reliquia pittoresca di un passato nemmeno così tanto interessante, Bob Dylan, il grande Bob Dylan, si risvegliò dal suo torpore, si fece un giro tra vecchi punk ormai abbastanza stagionati per suonare rockabilly, e incise il suo Capolavoro Sconosciuto degli Anni Ottanta. Quello di cui nessuno vi ha mai parlato. Il disco in cui misero le mani Sex Pistols, Clash, Eric Clapton, Sly e Robbie, Grateful Dead, una piccola enciclopedia del rock di ogni tempo, del rock senza tempo. No, nessuno vi ha mai detto che queste dieci brevi canzoni sono il vero Nuovo Testamento di Dylan, quello che ti fa rileggere tutti i testi precedenti in un modo diverso. Nessuno ha mai ammesso che il rock’n’roll finisce esattamente nel momento in cui Dylan consegna ai posteri le sue versioni di Let’s Stick Together Sally Sue Brown, integrandole con le altrettanto definitive SilvioUgliest Girl in the World e  Had a Dream About You Baby. Ma se nessuno vi ha mai rivelato che le ballate più struggenti di Dylan sono proprio in questo misconosciuto album, che la sua Shenandoah è la migliore di tutte le Shenandoah possibili, che Rank Stranger to Me è un finale struggente ma è Death is Not the End la vera grande ultima canzone di Bob Dylan; se nessuno vi ha mai detto tutte queste cose un motivo c’è.

Ed è che sono un mucchio di fregnacce.

Down in the Groove non è il capolavoro sconosciuto di Dylan. Scusate. Ci ho provato. È che qualche estate fa, per gioco, avevo provato a stroncare tutti i dischi dei Beatles, e mi ero divertito molto. Più il disco era famoso e celebrato, più funzionava la stroncatura. Siccome lo stesso gioco con Dylan non avrebbe senso (tutti stroncano i dischi di Dylan – non sei un vero dylanita se non ne hai demoliti almeno un paio) mi sono chiesto se in questo caso la sfida non sarebbe stata il contrario: riuscire a scrivere di ogni ciofeca come se si trattasse di un capolavoro. Ma a quanto pare è molto più difficile – insomma, uno cosa può dire di Let’s Stick Together fatta da Dylan? È l’arcinota Let’s Stick Together, è suonata in modo professionale e… trascinante? Abbastanza trascinante? Nel nugolo delle versioni di Let’s Stick Together si segnala perché è appunto cantata da Bob Dylan, con la sua voce molto peculiare e non troppo fuori forma. Niente di terribile. Se avessi le palette di Ballando con le Stelle alzerei un sei, magari un sette di incoraggiamento. Se nel 1988 l’avessi ascoltata per radio, magari in coda a Fisherman’s Blues dei Waterboys o Talkin’bout a Revolution di Tracy Chapman, non avrei cambiato frequenza sbadigliando? Se ne avessi intravisto l’oscura e dimessa copertina in una vetrina di un negozio di dischi – e forse la vidi davvero – tra Lovesexy Justice for All It Takes a Nation of Millions e quel disco dei Pet Shop Boys col monoscopio ultracolorato, lo avrei preso in mano? Perché? Per far colpo su chi? Nemmeno sul nonno.


Questo a dire il vero potrebbe essere il grande merito di Down in the Groove: è il disco con cui Dylan, dopo qualche tentativo più o meno fruttuoso di aggiornarsi ai gusti del tempo (e a un metodo di lavoro in sala di incisione che era agli antipodi della sua sensibilità), si allontana definitivamente in direzione del passato. Oggi sembra l’equazione più scontata del mondo, Dylan=Passato. Già le ultime pagine dell’intervista nel booklet di Biograph sembravano lo sfogo di un vecchietto ai giardini: una volta le cose erano diverse, si registrava alla svelta e con più feeling, oggi è tutto prefabbricato ecc ecc ecc. (il Dylan che dichiarava queste cose, ricordiamo, aveva 30 in meno di quello di adesso). E però dopo la fase gospel Dylan ci aveva pure provato, a vivere negli anni Ottanta. Si era comprato quelle buffe giacche e aveva lavorato coi produttori sulla cresta dell’onda. Aveva persino tentato qualche timido approccio alla scena postpunk. Tutto questo, all’altezza di Down the Groove, sembra già dimenticato, almeno dopo la seconda traccia – uno dei brani più assurdi e imbarazzati mai registrati da Dylan, When Did You Leave Heaven, un vecchio blues che Dylan disseziona spietato e sventato come un bambino che fa a pezzi una lucertola: toglie la melodia, toglie il tempo, e lascia che musicisti e tecnici del suono raccattino i resti e provino a metterli assieme. When You Leave Heaven è l’ultimo rigurgito della fase Empire Burlesque: un episodio abbastanza casuale, perché a rammendare il tutto vengono scomodate una specie di synth e soprattutto QUELLA CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA che suona più assurda del solito, visto che Dylan non aveva quel tempo in mente mentre stava cantando (probabilmente non aveva in mente nessun tempo). (Sul serio, uno che fa posto a una canzone del genere su un suo disco ha evidentemente ancora grosse difficoltà a riascoltarsi). Se almeno il testo fosse profondo – ma no, è una serie di frasi d’aggancio che oggi ti costerebbero l’amicizia anche di una 50enne su facebook. “Perché hai lasciato il paradiso? Dove hai messo le ali?” e così via. Ma avete capito dove siamo? Stiamo parlando del brano più brutto di uno dei dischi più brutti di Dylan. Non viene voglia di ascoltarlo, anche solo per capire quanto in basso può scendere il nostro eroe?

Never forget.

Never forget.

Il resto del disco non è così orribile – sì, Down in the Groove è deludente anche come disco brutto. In fondo quello che ci aveva tenuto sveglio mentre ascoltavamo i dischi gospel e poi quelli pop era l’incredulità – tutte le maschere che Dylan aveva tentato, così poco credibili che strappavano una risata o almeno un sorrisetto di commiserazione. Down the Groove rinuncia a tutti i travestimenti, tranne uno: il Chiodo. Diciamo che se i dischi brutti di Dylan fossero una famiglia, Down in the Groove sarebbe il ragazzino imbecille in giacca di pelle, nell’angolo della foto, che giocherella col coltello a serramanico finché non si affetta un polpastrello. Rammentate quanto sembrava già indifendibile Dylan, in giacca di pelle, nel video di Tight Connection to My Heart? In Down in the Groove non possiamo non immaginarlo nella stessa giacca, mentre roccheggia e rolleggia e non importa chi stia suonando con lui, davvero: che siano i Grateful Dead, che sia Steve Jones (ex chitarra dei Sex Pistols), Paul Simonon (ex basso dei Clash), Eric Clapton: non ha una grande importanza e non fa una vera differenza. Suonano tutti più o meno uguale, una specie di lingua franca del rock: ad esempio all’inizio di Ugliest Girl puoi sentire qualcuno che scimiotta Honky Tonk Women forse senza neanche accorgersene. Altrove la chitarra ha già quel riverbero tremolato vintage che di lì a pochi mesi Chris Isaak avrebbe reso insopportabile, e sul quale avrebbe puntato molto Daniel Lanois.

La proposta di copertina di Rick Griffin, illustratore semiufficiale dei Grateful Dead.

La proposta di copertina di Rick Griffin, illustratore semiufficiale dei Grateful Dead.

Insomma Down in the Groove ha una sua identità, anche se è una delle identità meno interessanti possibili (retro-rock nel 1988): se Knocked Out Loaded più che un album sembrava una collezione di canzoni registrate in luoghi e momenti diversi, Down in the Groove ha indubbiamente un suo suono, malgrado sia il risultato di un periodo ancora più caotico del precedente: due anni di session sparse qua e là, due anni di progetti accantonati (un disco di cover con Al Kooper e Steve Douglas; i brani incisi – e scartati per il film in cui Dylan recitava la parte della vecchia rockstar in pensione a fianco di Rupert Everett, mai distribuito negli USA per manifesta bruttezza; un disco rockabilly coi reduci del punk; un disco dei Grateful con cui stava per andare in tour). È difficile immaginare che Down in the Groove raccolga il meglio di tutto questo – è tipico di Dylan buttare via i fiori e tenersi foglie e spine. Ma almeno il risultato ha un senso. Non è il disco di sole cover che continuava a promettere, ma è senz’altro il prodotto meno autoriale che avesse inciso fino a quel momento – anche quando sceglie di mettere la musica a un paio di composizioni di Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead, Dylan sceglie per Silvio Ugliest Girl la soluzione più scontata: il rock’n’roll. È il disco in cui, dopo averlo promesso per anni, Dylan comincia davvero a scavare nel passato, e non solo nel suo. Come primo vero scavo però lascia delusi – ancora di più oggi che sappiamo di cosa è capace il Dylan archeologo, il Dylan degli anni Zero che resuscita i morti in forma di canzone. Down in the Groove era magari un buco nell’acqua necessario, ma alla distanza risulta un ectoplasma ancora più informe di quanto non fosse nell”88.

Il giudizio sul disco può variare di molto se si considera Death is Not the End una delle più grandi ballate di Dylan – semplice, lineare, memore dell’esperienza gospel – o un brano insopportabile, giustamente eliminato da Infidels – in effetti si tratta di un caso raro, per Dylan, di ripescaggio di un’incisione da un disco precedente, tanto che la produzione del brano è attribuita a Knopfler anche se i cori sono stati senz’altro aggiunti dopo. Quanto a Shenandoah, per poter dire che la versione dylaniana di Shenandoah mi sembra la meno interessante in assoluto, forse dovrei ascoltare almeno altre cinquanta versioni di Shenandoah, il che magari tra spotify e su youtube si potrebbe fare. Potrebbe essere la sfida del prossimo anno: Tondelli ascolta cinquanta Shenandoah e sopravvive per raccontarlo. Nel frattempo mi alleno a scrivere Shenandoah senza copia-incolla: Shenandoah, Shenandoah, Shenandoah (sto diventando bravissimo) Poi ne pesco una a caso da youtube e scommetto con voi che è più bella di quella di Dylan: se perdo mi ascolto tutto Triplicate prima di recensirlo.

L’altra sera mi hanno mandato a prendere due cose al mcdonald e niente, mentre ero in coda ho riascoltato uno dei dischi più inutili di Bob Dylan: e parliamo dell’uomo che ha regalato all’umanità Self PortraitStreet LegalEmpire Burlesque. Però effettivamente credo di aver ascoltato Down in the Groove nella sua condizione ottimale: su un’auto, che non andava “a 90 miglia all’ora in un vicolo cieco”, ma restava ferma davanti a una caricatura seriale dell’American Way of Life. La copia di una copia di una copia di un prototipo effettivamente azzeccato – il rock and roll. Allora forse non è neanche colpa di Bob Dylan se la sua Stick Together, dopo centinaia di Stick Together, mi rimane indigesta. Vuoi dare la colpa al cuoco di un mcdonald se ti serve un bigmac? Le canzoni di Down on the Groove sono come certe patatine gommose che mangi per inerzia, perché rappresentano comunque qualcosa di popolare che piace a tutti e almeno in teoria anche a te, anche se nello specifico non sono croccanti e nemmeno salate. Forse ti ricordano i tuoi vent’anni, o più probabilmente i vent’anni di qualcun altro che invidiavi a vent’anni. Resta poi da indagare il motivo per cui il rock and roll abbia funzionato così bene per così tanto tempo – forse analogo al motivo per cui presto o tardi tornerò a fare la fila al mcdrive e ad avere voglia di panini appiccicosi e insoddisfacenti. Ogni volta che leggo qualcosa di Dylan e dei suoi studiosi sul rock, su Elvis e i suoi discepoli e i suoi profeti, mi sembra di trovarmi di fronte al culto di un idolo di legno. Sono tutti prostrati di fronte a roba di seconda mano – non priva di una certa grazia artigianale – ma il modo in cui un blues accelerato in 12 battute possa diventare un così raffinato strumento conoscitivo ed espressivo, un portale per viaggiare nel tempo e ritrovare l’Autenticità, continua a sfuggirmi. Per me è roba che sì, stuzzica, ma un po’ troppo dolciastra, ecco.

Per chi sta facendo davvero l’esperienza di ascoltare tutti i dischi di Dylan in fila, Down in the Groove è importante soprattutto come pietra miliare: da qui in poi, per quanto sarà ancora lunghissima, sappiamo che ce la faremo. E soprattutto sappiamo che certe cose ce le stiamo lasciando alle spalle per sempre: mai più quel CAZZO DI BATTERIA. Mai più gospel, sul serio, direi che Death is Not the End è proprio l’ultimo. E… tenetevi forte: mai più coretti. Vi rendete conto? È l’ultimo disco coi coretti (qui c’è anche un vocione basso da doo-wop). Insomma ce la stiamo facendo. Siamo fuori dalla Fossa. Ci saranno altri incidenti di percorso, ma così in basso non scenderemo mai più.

O no?

(Continua…)

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1…)

 

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.