Chiunque canta meglio di Bob Dylan

The Witmark Demos: 1962–1964 (Bootleg Series, vol. 9, 2010).

(L’album precedente: The Times They Are A-Changin’
Il successivo: Another Side of Bob Dylan).

Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città. La gente che passava, al sorger del sole notò i vestiti strappati e i buchi alle suole. È lì disteso sul marciapiede, la gente si volta appena lo vede. Arriva il poliziotto a fare il verbale: “Svegliati vecchio, ti porto in centrale”. Col manganello lo toccò, e in strada il vecchio rotolò. E…. Gesù, non… ho perso l’ultima strofa. (Man on the Street).

Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_9

Grazie ai suoi contatti alla Columbia, Dylan poté ascoltare in anteprima i blues di Robert Johnson in un LP che non era ancora stato pubblicato, quello che in seguito fece impazzire Eric Clapton, Keith Richards, Jimmy Page e tutti gli altri. Oggi sappiamo che il fenomeno Robert Johnson è anche frutto di un equivoco: la vecchia etichetta che gli aveva fatto incidere una ventina di pezzi, prima che finisse avvelenato, era abituata a inciderli un po’ accelerati, per far ballare la gente. Dunque il vero Robert doveva avere un tono più basso – più simile a quello di altri bluesmen del Delta, e una tecnica un po’ meno mostruosa. Ma Dylan non lo sapeva, mentre copiava i blues a Johnson. Sonny Boy Williamson glielo aveva pur detto, che suonava troppo veloce. (Sonny aveva suonato con Johnson la notte in cui rimase ammazzato) (è un episodio troppo significativo per non sospettare che Dylan se lo sia inventato).

E il tuo orologio si fermerà alla porta di San Pietro. Tu gli chiederai l’ora, lui ti risponderà: “È troppo tardi”. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai (I’d Hate to Be You on That Dreadful Day).


“Che copertina elettrizzante, diversa da tutte le altre!
La guardavo incantato” (Chronicles 1).

Il modo migliore di ascoltare i 47 Witmark Demos (registrati tra ’62 e ’64, non solo alla casa editrice musicale Witmark), è immaginare Dylan come uno dei suoi vecchi idoli in bianco e nero molto sgranato; quelli che registravano un po’ di pezzi e poi scomparivano nel nulla misterioso da cui erano emersi. Se di Bob Dylan conoscessimo soltanto il nome e i Witmark Demos, sarebbe comunque una già una leggenda, come Johnson. Dopotutto c’è Blowin’ in the Wind, c’è Hard Rain, c’è Don’t Think Twice, c’è The Times They Are A-Changin’ (al pianoforte!), c’è Mr Tambourine Man. E poi ci sono almeno 15 pezzi misteriosi mai più incisi dal suo autore: se non conoscessimo nient’altro di Bob Dylan, comunque ne avremmo abbastanza per costruirci su di lui la leggenda di un musicista vagabondo in giro per l’America rurale a rimorchio dei treni. Anche Robert Johnson era probabilmente un performer molto più vario di quello che ci suggeriscono le sue incisioni: quando lo invitavano alle feste sapeva suonare qualsiasi cosa. Ma i bianchi discografici volevano sentire il blues, e lui incise quasi soltanto del blues.

E il vino scorrerà a fiumi, a cinque cents al bicchiere: così ti frugherai le tasche e scoprirai che ti manca giusto un cent. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai. 

Subito dopo la realizzazione del primo disco, John Hammond, il talent scout di Dylan lo aveva messo in contatto con la Leeds Music, una casa editrice che era interessata a pubblicare le sue composizioni, in spartiti sciolti o in un libro. Pochi mesi dopo Grossman, il suo nuovo manager, lo convinse ad annullare il contratto con la Leeds e passare alla M. Witmark & Sons. Abbiamo già notato che a volte le performance di Dylan sembrano più partiture che esecuzioni vere e proprie: questo è vero soprattutto per i Witmark Demos, registrazioni che non erano concepite per essere incise su disco, ma ascoltate da un trascrittore che ne avrebbe ottenuto uno spartito. Fu così per esempio che Blowin’ in the Wind fu divulgata sulle pagine di Sing Out! prima che Dylan la incidesse per The Freewheelin’. Ma il vero mercato della Leeds e della Witmark era l’ambiente musicale: gli spartiti venivano inviati per posta agli artisti. Chi manifestava il proprio interesse per un pezzo poteva domandare alla Witmark l’invio di un disco in acetato con l’esecuzione dell’autore. Questi acetati naturalmente non dovevano essere divulgati al grande pubblico, un po’ come le copie dei film che oggi le major inviano ai critici, ah ah ah.

Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo eccetera, ehi dimmi un po’, eh, cosa farai? (Watcha Gonna Do).

Che gli i pezzi di Dylan, per quanto oscuri o irregolari, potessero avere un potenziale commerciale, era chiaro sin da quando Peter, Paul e Mary avevano inciso la loro Blowin’ in the Wind. Per ottenere un’altra hit bisognerà aspettare il ’65, quando i Byrds raccatteranno Mr Tambourine Man e la useranno per inventare un nuovo sound californiano. Nel frattempo, a New York, Dylan si arrangia, scrive di tutto e di tutti, incide quello che gli viene in mente. A un certo punto lo sentiamo dire: proviamo pure questa, giusto per (“Just for kicks”). Qui non sta cantando e suonando per il pubblico, ma per un copiatore che deve saper riconoscere al volo note e parole. È insomma più importante scandire bene gli accordi e i testi, senza virtuosismi o eccessi teatrali. Il pianoforte può essere più comodo della chitarra, certo non per Dylan che lo suona in modo rudimentale (sui tasti neri) ma per chi deve trascrivere gli accordi. È anche consentito fermarsi e correggersi, o spiegare al tecnico che non si ricorda più il testo della prima strofa ma gliela farà avere più tardi. Il fascino dei Demos è anche nell’approccio intimo che Dylan sembra instaurare col suo ascoltatore: la libertà di mollare un pezzo a metà perché, insomma, “l’ho già cantato così tante volte” (Let Me Die In My Footsteps).

Un uomo è morto per un pugnale affilato, un altro per la pallottola di una pistola. Un uomo è morto col cuore spezzato nel vedere il linciaggio di suo figlio. Tanto tempo fa, lontano lontano… Queste cose non succedono più al giorno d’oggi, non è vero? (Long Ago, Far Away).

È tutto meravigliosamente estemporaneo e irregolare: e ai dylaniti piacciono le cose estemporanee e irregolari. Veramente tanto. Sennò non amerebbero Dylan – c’è sicuramente in giro gente che canta meglio, che incide meglio, che arrangia meglio. Il che non significa che Dylan sia un protopunk, che canti male apposta, o che non si preoccupi della resa delle sue canzoni in sede di registrazione. C’è un grande malinteso di base tra Dylan – che si considera un musicista rigoroso, a modo suo, e che ha sempre cercato di incidere canzoni che considerava belle con arrangiamenti che considerava necessari – e i suoi fan, che a volte danno la sensazione di volerlo sentire suonare male per il gusto di. Questa cosa lo tormenterà per anni, lo vedremo. Ma per ora non lo sa, è convinto di suonare soltanto per un tizio che trascrive. Il pubblico dovrebbe restare fuori da tutto questo. Noi non dovremmo saperne niente.

Quando la figlia del Vecchio Reilly ricevette il messaggio che diceva che le avrebbero impiccato il padre (aveva provato a rubare uno stallone), cavalcò tutta la notte e arrivò il mattino dopo con oro e argento in tasca. Quando il giudice la vide, i suoi occhiacci gli sprofondarono in testa mentre diceva: “L’oro non comprerà mai la libertà di tuo padre: tu invece sì che vali il prezzo” (Seven Curses).

I Witmark Demos sono il nono volume di una collezione di bootleg pubblicati dalla Columbia – una contraddizione in termini, se intendiamo “bootleg” col tradizionale significato di “registrazione live pubblicata senza il consenso dell’autore”. I bootleg di Dylan però hanno sempre avuto una doppia natura. Non solo registrazioni di concerti (di cui erano in effetti pieni gli scaffali dei negozi prima dell’avvento di Springsteen) ma più in generale, edizioni abusive di canzoni che Dylan aveva registrato ma non aveva voluto incidere, per motivi che non è sempre dato comprendere. Perché davvero: cos’aveva John Brown per non essere incisa in uno dei primi tre dischi? Quale LP del periodo acustico non avrebbe guadagnato qualcosa da Long Ago, Far Away, da Farwell o persino da quello scherzo apocalittico che è I’d Hate to Be You on That Dreadful Day? Col senno del poi è facile dimostrare che Dylan non è un buon giudice del suo lavoro. Gli esempi si sprecano: Mama You Been On My Mind, scartata da Another Side è uno dei primi esempi di canzone che Dylan stava quasi per dimenticare: fortuna che a Joan Baez piaceva (benché fosse una canzone su Suze Rotolo, o forse proprio per questo?) Poi la incise Judy Collins, poi Rod Stewart, Jeff Buckley, lo stesso Dylan non ha più smesso di suonarla. Ma nel ’64 stava per buttarla via. I Demos sembrano uno scrigno trovato in un solaio: ci sono gemme, perline e fondi di bottiglia, tutto mescolato insieme, è difficile separare e forse non vale la pena. Di sicuro Dylan non ci prova più. Seven Curses è una brillante e originale rivisitazione di un’antica ballata inglese, o un fondo di magazzino? È difficile da dire. Ain’t Gonna Grieve aveva le carte in regola per diventare un inno del Movimento? Chi lo sa, Dylan l’ha messa in un angolo e mai più usata.

“Oh padre, morirai di sicuro, se non faccio almeno un tentativo. Pagherò il prezzo, non seguirò il tuo consiglio, per questo motivo devo restare”. L’ombra della forca scese nella sera, nella notte un cane ululò; le assi del pavimento scricchiolarono; il prezzo fu pagato. Il mattino dopo, quando si svegliò, seppe che il giudice non aveva detto nulla, quando vide il corpo del padre che oscillava, spezzato.

Ho sempre avuto il sospetto che molti dylaniti preferiscano riascoltarsi i Demos o i Basement Tapes piuttosto che molti album ufficiali. È un sospetto che anche Dylan deve avere nutrito, quando per esempio negli anni Ottanta si sbatteva per modernizzare il suo sound e nel frattempo la gente preferiva ascoltare certe prove di lavoro con solo pianoforte e chitarra. C’è tutta una poetica dell’imperfezione, dell’approssimazione, l’irresistibile impulso che evocano i suoi primi dischi in qualsiasi ascoltatore. Davanti a quella chitarra ritmicamente non impeccabile, quell’armonica un po’ sgangherata, quella voce nasale: saprei fare meglio io. Che in fondo è il motto dell’arte contemporanea, no? Sapresti fare meglio tu, spettatore. E quindi smetti di fare lo spettatore, che aspetti? Datti da fare. Leonard Cohen era uno scrittore promettente: aveva già avuto modo di annoiare i critici canadesi coi suoi primi due romanzi e le poesie. Poi un giorno alla radio ascolta un pezzo di Dylan: ehi, ma questa roba potrei farla anch’io. In realtà non è affatto facile suonare e cantare come lui, chi ci ha provato lo sa: ma è importante che Dylan dia questa sensazione. Certo, senza di lui non avremmo avuto milioni di emuli stonati in tutto il mondo. Ma non avremmo avuto nemmeno Leonard Cohen, Tim Buckley, Paul Simon avrebbe scritto musichette di classifica per qualche gruppo bubblegum, Joni Mitchell avrebbe messo su famiglia, eccetera. Persino Lou Reed, chissà che fine avrebbe fatto. E Lennon avrebbe mai ripreso in mano la chitarra acustica? Eccetera.

E allora corri Willie, corri; vai Willie, va’. Dove stai giocando adesso? Nessuno ormai lo sa.

D’altro canto forse gioverebbe riuscire ad ascoltare i Demos senza pensare a Cohen, alla Baez o a nessun altro. Fingere che Dylan non abbia più inciso niente, che sia davvero Long Time Gone, il picaro autostradale di uno dei suoi bozzetti. Ti parlerò di risate e disgrazie, che siano mie o di qualcun altro: con le mani nelle tasche e il bavero della giacca davanti al viso, viaggerò “unnoticed and unknown”. Quindi siamo all’arrivederci, eh? mio unico vero amore (Farewell). Il tropo del viaggio “on the road”, embrionale in The Freewheelin’ e completamente rimosso nella fase realista di The Times They Are A-Changin’, scorre qui sotterraneo prima di sfociare nei brani di Another Side e dei due dischi successivi. È inevitabile pensare a Kerouac, ma Dylan ha riferimenti più profondi, più antichi. Tra i primi brani c’è Rambling, Gambling Willie, l’epopea di un giocatore d’azzardo senza fissa dimora, “che aveva ventisette bambini e non si è mai sposato”. Willie era implacabile, Willie sfilava i diamanti ai ricconi con un bluff, Willie una volta salì su un battello per fare due mani e divertirsi, e alla fine del viaggio il battello era suo. Però Willie era un cuore d’oro: non vestiva elegante, usava i suoi soldi per i poveri e i malati, e non ha mai fatto mancare niente ai suoi figli. Finché un giorno qualcuno non ha sopportato di perdere, gli ha sparato (aveva una doppia coppia, assi e otto), e adesso chissà dov’è a giocare, eh Willie? Di furfanti dal cuore d’oro, Dylan ne canterà parecchi, abusando della nostra e della sua credulità, accecato da una certa mitologia della frontiera. Willie è il primo, e in un certo senso sarà l’ultimo. Ma ci vorrà tempo per arrivarci. Per ora nessuno può sospettarlo, il giovane Bob meno di tutti. Sta solo scrivendo ogni cosa che gli venga in mente, diamanti e cocci di bottiglia, tutto insieme. Lì in mezzo c’è anche la storia della sua vita a venire, ma come fare a riconoscerla.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.