La Morte biancoazzurra

Chissà se è poi lei davvero.

5 settembre – Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), mendicante.

La mia prima impressione fu quella di tutte le fotografie e i filmati che avevo visto di Belsen e posti del genere, perché tutti i pazienti avevano la testa rasata. Non c’erano sedie, solo barelle. Sono dello stesso tipo di quelle usate durante la prima guerra mondiale. Non c’è un giardino, nemmeno un cortile. Niente di niente. Allora mi chiesi: che cos’è questo posto? Sono due stanze, di cui una ospita tra i cinquanta e i sessanta uomini, e l’altra tra le cinquanta e le sessanta donne. Stanno morendo. Non ricevono molte cure mediche. Praticamente non ricevono nemmeno antidolorifici oltre all’aspirina e, in pochi casi fortunati, del Brufen o cose del genere, per il tipo di dolori che accompagnano il cancro terminale e le malattie di cui stavano morendo… Non avevano un numero sufficiente di fleboclisi. Gli aghi li usavano e riusavano all’infinito e di tanto in tanto si vedeva una suora sciacquare gli aghi sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Chiesi a una di loro perché lo faceva, e mi rispose: “Be’, per pulirli”. Allora le dissi: “Sì, ma perché non li sterilizzi; perché non fai bollire l’acqua e sterilizzi gli aghi?” Mi rispose: “Non ce n’è motivo. Non c’è tempo”. Il mio primo giorno di lavoro, finito il turno nel reparto donne andai ad aspettare fuori dal reparto uomini il mio ragazzo, che assisteva un ragazzino di quindici anni in fin di vita, e una dottoressa americana mi disse che aveva cercato di curarlo: aveva un problema renale relativamente semplice che era andato peggiorando sempre più perché non gli avevano somministrato antibiotici. Aveva bisogno di essere operato. Non ricordo quale fosse il problema, ma la dottoressa me lo disse. Era arrabbiatissima, ma anche molto rassegnata, come capita a molte persone in quella situazione. Disse: “Be’, non vogliono portarlo all’ospedale”. E io: “Perché? Basterebbe chiamare un taxi e portarlo all’ospedale più vicino, e chiedere che venga curato. Farlo operare” Lei rispose: “Non lo fanno. Non vogliono. Se lo fanno per uno, devono farlo per tutti”. Allora pensai: ma questo ragazzino ha quindici anni. Tenete presente che le entrate complessive di Madre Teresa bastano e avanzano per attrezzare svariati ambulatori di prim’ordine nel Bengala. (Testimonianza raccolta da Christopher Hitchens in La posizione della Missionaria, che titolo del cazzo, 1995).

Prima dell’India, prima dei poveri, prima della dottrina sociale della Chiesa, prima di qualsiasi altra idea o concetto, nella nostra memoria involontaria Madre Teresa evoca un’immagine precisa: le rughe. Non c’è una Teresa di Calcutta senza rughe. Cercatela su google: non si trova. Avrete miglior fortuna digitando il nome secolare, Anjeza Gonxha Bojaxhiu (nata a Skopje, a quel tempo Kossovo ottomano, poi Regno di Jugoslavia, poi Macedonia jugoslava, oggi repubblica di Macedonia). Sin dai primi suoi timidi passi sulla ribalta mondiale (più o meno 1969: stava per compiere 60 anni), Teresa ha sempre mostrato quella faccia vizza che le persone della mia generazione erano abituati a identificare in pochi decimi di secondo. Prima di cambiare canale.

Perché nessuno guardava volentieri Madre Teresa. Di lì a poco di solito l’obiettivo si sarebbe allargato e intorno a lei sarebbero comparsi bambini denutriti o lebbrosi e mosche e tutto il resto, e da questa parte del televisore era quasi sempre ora di pranzo o cena. Madre Teresa è l’unica celebrità internazionale davanti alla quale veniva spontaneo abbassare lo sguardo. Questo, paradossalmente, potrebbe essere stato il segreto del suo straordinario successo. Senza dimenticare il velo delle missionarie della Carità, con quella banda di un bell’azzurro su bianco, sobria ed elegante, in mancanza del quale forse non avremmo mai riconosciuto davvero Madre Teresa di Calcutta. Le sue rughe in fondo non sono quelle di una qualsiasi signora di una certa età? Se oggi incontrassimo una Teresa vestita in abito civile, mentre chiede la carità in qualche luogo pubblico, la scambieremmo abbastanza facilmente per una mendicante abituale. E faremmo esattamente la stessa cosa che facevamo con la Teresa originale: scapperemmo via, magari lasciandole in mano una cifra qualsiasi, consapevoli che quello che stiamo facendo non servirebbe a nulla, né a distenderle le rughe né a salvare o cambiare la vita di qualcuno, e nemmeno ad alleviare un nostro senso di colpa o un semplice fastidio. Si tratta semplicemente di svincolare il prima possibile da una presenza sgradevole.

Questa situazione non è frutto di un caso, ma il risultato di accurate ricerche di mercato che i mendicanti fanno da millenni, al termine delle quali si è capito che infastidire il passante è meglio che commuoverlo: il passante commosso potrebbe fermarsi più del dovuto, preoccuparsi, mettersi a discutere, ostruendo così il passaggio e facendo perdere tempo al mendicante, che non è mica lì per raccogliere confidenze e consigli (sta lavorando). Si è scoperto altresì che il mendicante macilento rende più di quello sano; discorsi fatalisti e professioni di fede in entità superiori sono di gran lunga più redditizi che accuse circostanziate verso nemici identificabili; e che certi dettagli funzionano meglio di altri: le rughe, per esempio. A Teresa non sono mai mancate. Nel 1995, quando Christopher Hitchens pubblica la prima edizione del suo pamphlet anti-Teresa, si meraviglia un po’ retoricamente di essere il primo a picconare un monumento tutto sommato abbastanza friabile: “mi sorprende ancora”, scrive, “che nessuno abbia deciso prima di guardare alla santa di Calcutta come se il soprannaturale non c’entrasse nulla”. Il fatto è che alla beata di Calcutta non si guarda proprio in faccia volentieri. Sappiamo tutti vagamente che gestiva delle case di cura (migliaia, diceva lei), in luoghi disperati a cui noi non abbiamo voglia di pensare. Di solito nel giro di pochi secondi abbiamo già voltato pagina, cambiato canale, cliccato su qualche altro contenuto più leggero; una piccola percentuale di noi avrà nel frattempo compilato un vaglia, ed è su questa piccola percentuale che fanno riferimento le imprese mendicanti come quella fondata da Teresa. Questa piccola percentuale non necessariamente crede nel soprannaturale; più spesso deve gestire sensi di colpa o mostrarsi compassionevole a sé stessa o a un pubblico.

Con Michèle Duvalier (la moglie del dittatore haitiano).

Teresa questa cosa la capiva, e accettava il denaro senza giudicare, provenisse da Lady D o dal dittatore di Haiti, o da Reagan, o dall’accademia di Svezia, o da me o da te. Tutta gente unita dalla necessità di sgravarsi la coscienza, ma anche dall’urgenza di pensare ad altro, perché i poveri e i lebbrosi sono veramente brutti da guardare ed è quasi sempre ora di pranzo o cena. Anche su questo senso di urgenza, sulla necessità di distogliere in fretta lo sguardo, faceva affidamento Madre Teresa, mentre raccoglieva soldi in tutto il mondo, per metterli dove?

“Il denaro non era impiegato male”, racconta Susan Shields (ex suor Virgin); “per la maggior parte non era impiegato affatto. Quando ci fu una carestia in Etiopia, molti assegni arrivarono con la causale “per gli affamati in Etiopia”. Una volta chiesi alla sorella che era responsabile dei fondi se dovevo mettere da parte tutti quegli assegni e spedire il totale in Etiopia. Lei mi rispose: ‘No, noi non spediamo soldi in Africa’. Però continuai a inviare ricevute ai donatori intestate ‘Per l’Etiopia'” (Wüllenweber, “Stern”, 1998).

Dove siano finiti i soldi, ancora non è chiaro. Nessuno, nemmeno il laicista più esasperato, si è mai spinto fino a immaginare che Teresa e le sue Missionarie abbiano una doppia vita dissoluta, in cui scialano le offerte che piovono dal mondo intero. E quindi, considerato che i sanatori da loro gestiti restano luoghi poverissimi dove i malati muoiono a volte senza antibiotici (figurarsi gli antidolorifici), e che persino la presenza di un frigorifero o di un ascensore è maltollerata; considerato che è inverosimile che possano buttare via molti soldi le suore che usano gli stessi aghi ipodermici più volte, sciacquandoli nell’acqua fredda, e che somministrano vaccini molto oltre la data di scadenza… non resta che immaginare un enorme pozzo senza fondo in cui vanno a finire tutti i vaglia – poco importa se questo pozzo esiste davvero o è una metafora per lo IOR. Può darsi semplicemente che Teresa abbia reinvestito ogni soldo che le è arrivato nell’apertura di nuovi sanatori senza frigorifero, ascensore e aria condizionata, dato che la sua priorità non è mai stata la salute o il benessere dei suoi pazienti. Mai. Anche se noi viandanti infastiditi abbiamo spesso dato per scontato che lo fosse: che a Calcutta e altrove Teresa combattesse contro il dolore e la disperazione e la morte. Niente di più sbagliato, e non possiamo nemmeno prendercela con lei, che non ha mai fatto finta di essere diversa da quello che era.

A San Francisco fu messo a disposizione delle suore un convento a tre piani con molte stanze spaziose, lunghi corridoi, due scaloni e uno scantinato immenso. […] Le suore non esitarono a sbarazzarsi dei mobili indesiderati. Tolsero le panche dalla cappella e strapparono via tutta la moquette dalle stanze e dai corridoi. Buttarono grossi materassi dalle finestre e spogliarono l’edificio di tutti i divani, di tutte le sedie e di tutte le tende. La gente del quartiere stava sul marciapiede a guardare sbalordita. Quel magnifico edificio fu reso conforme allo stile di vita che doveva aiutare le sorelle a diventare delle sante.
Spaziosi soggiorni furono trasformati in dormitori stipati di letti. […] I riscaldamenti rimasero spenti per tutto l’inverno nonostante la casa fosse umidissima. Nel periodo in cui vissi là molte sorelle contrassero la TBC (Hitchens, 1995).

Con GP2, che faccia fa.

Anche i suoi grandi accusatori glielo riconoscono: Madre Teresa è sempre stata sincera su quello che intendeva fare. Se solo avessimo voluto ascoltarla, invece di scantonare appena potevamo, ci saremmo resi conto che dei dolori e della disperazione e della morte Teresa non era il nemico, ma un fedele alleato: che la sua priorità non era salvare delle vite, ma guadagnare delle anime. Spesso nel modo più spiccio; battezzandole ad esempio in punto di morte, distribuendo “biglietti per il paradiso”. Più in generale, in Teresa prosegue una corrente di pensiero che dal medioevo alla Controriforma vede nel dolore uno strumento di espiazione e di santificazione. Le Missionarie della Carità sono forse l’unico vero ordine mendicante che è resistito alla modernità, oggi che anche i francescani mettono su degli ospedali di eccellenza. La loro fondatrice – che pure è la protagonista di uno dei processi di beatificazione più rapidi della storia – in vita non ha mai fatto miracoli. O meglio: i miracoli a cui accennava nei suoi discorsi non riguardavano le guarigioni, malgrado avrebbe facilmente potuto attribuirsene, vivendo tra un sanatorio e l’altro. I prodigi che raccontava Teresa erano piuttosto telefonate improvvise in cui veniva avvisata che il tale ente aveva deciso di corrisponderle una cifra, proprio nel momento in cui questa cifra le serviva per aprire una casa della carità da qualche parte nel mondo. Miracoli di fundraising, miracoli da mendicante. Nulla di paragonabile alle trovate un po’ guittesche di Padre Pio, che a suo modo però mostrava di considerare il dolore e la malattia nemici da sconfiggere, anche con buone dosi di autosuggestione, in mancanza di meglio. Teresa no: non ha mai guarito nessuno (da viva. Da morta avrebbe fatto sparire il cancro a una signora indù che la invocava, miracolo sufficiente e necessario per ottenere la beatificazione). Guarire non era semplicemente la sua missione, né ha mai preteso che lo fosse. Siamo noi che abbiamo capito male, perché avevamo fretta, perché ci faceva comodo pensarla così.

Col crescere della sua fama, la fondatrice dell’ordine divenne in qualche modo consapevole dell’equivoco su cui si basava il “fenomeno Madre Teresa”. A un certo punto scrisse alcune parole che fece appendere fuori dalla sede dell’ordine: “Dite loro che non siamo qui per fare un lavoro; siamo qui per Gesù. Siamo prima di tutto religiose. Non siamo assistenti sociali, né insegnanti, né medici. Siamo suore” (Wüllenweber, 1998)

Nata e maturata sulle soglie del Terzo Mondo, Anjeza Gonxha Bojaxhiu ha trovato negli slums indiani l’habitat ideale per conservare un cristianesimo arcigno, refrattario a ogni progresso medico e scientifico, che in Occidente era già in crisi un secolo fa. Da Calcutta lo ha poi diffuso in giro per il mondo, trovando il sostegno di un Papa molto più simpatico, ma che in fin dei conti condivideva la stessa concezione: no a qualsiasi forma di contraccezione efficace, no al controllo delle nascite, i poveri e i sofferenti sono più vicini a Dio e quindi è giusto farne nascere sempre di più, e offrire la loro sofferenza a Dio. Bastava prestare attenzione ai loro discorsi, ma di solito avevamo meglio da fare.

L’equivoco di Madre Teresa si nasconde in quelle rughe balcaniche, tanto simili a quelle di chi ci tende agguati ai semafori per insaponarci il parabrezza in cambio di un euro, e se ci rifiutiamo abbiamo sempre paura che ci sputi addosso. Le abbiamo dato il Nobel, tutti i soldi che ha chiesto, e gliene avremmo dati di più: eravamo disposti a considerarla una benefattrice, una taumaturga, un’operatrice di pace, pur di non vederla per quello che era davvero: Madonna Povertà, la piccola Morte sdentata che ci aspetta fuori di casa, con la sua faccia vizza, e il suo occhio antico che mai vorremmo fissare, mai vorremmo che ci fissasse.

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.