Grande Piccolo Missionario

10 ottobre – San Daniele Comboni (1831-1881)

È solo una suggestione, e non è tutta colpa mia. Un po’ è anche colpa di Balotelli, e molto prima di Idris, lo juventino nero di Quelli che il calcio. Fatto sta che per me i neri italiani hanno sempre un’ombra di accento bresciano. Al punto che passeggiando per la contrada del Carmine uno si può immaginare che i bresciani indigeni siano loro, e abbiano passato l’accento ai pensionati pallidi coi capelli bianchi venuti da lontano. In fondo ci sta, voglio dire che se a un semaforo rosso invece di partire chiudi gli occhi, il grido del bresciano che sale da dietro senti che potrebbe venire dalla profondità della giungla, dalla spaziosità della savana. Brescia è la leonessa d’Italia e se parli bresciano stretto a un leone, secondo me, lui un po’ si spaventa. Poi ti mangia uguale, magari, ma portandoti il rispetto che meritano le prede importanti. Inoltre Brescia – non molti lo sanno – è oggettivamente una delle città e province più ospitali d’Italia: un Idris o un Balotelli avrebbero potuto saltar fuori da tante città padane, ma era statisticamente ragionevole che arrivassero da lì.

L’altro motivo per cui nella mia fantasia (strana) Brescia è alle porte dell’Africa è San Daniele Comboni, che era di Limone sul Garda e che a un certo punto dell’Ottocento risultava vescovo di tutta la Nigrizia, ovvero quell’immensa parte di Africa che nessun geografo europeo aveva ancora osato disegnare. Comboni era stato in missione nell’odierno Sudan per la prima nel 1857, a ventisei anni: in quell’occasione sopravvisse alle malattie che falciarono tre suoi compagni. Del resto era già l’unico superstite di otto fratelli (“di tanti figli me n’è rimasto uno solo, di carta” si narra dicesse la madre davanti al fotoritratto). Tornato a Verona, deciso più che mai a evangelizzare il continente nero, Comboni mette a punto un “piano per l’Africa” che oggi può apparirci datato, ma per i tempi risultava assolutamente rivoluzionario. In pratica Comboni aveva capito che noi europei, nel cuore dell’Africa, non ce l’avremmo mai fatta: non prima di inventare antibiotici e impianti di refrigerazione, perlomeno. E quindi l’Africa dovevano cristianizzarla gli africani – non gli africani venuti in Europa a studiare, come quelli che Comboni scopriva intirizziti nel suo collegio di Verona, ma gli africani delle coste, dove sarebbe stato opportuno rafforzare una rete di “fortini missionari”. Soltanto qui avrebbe avuto senso il lavoro degli europei – e delle europee, che secondo Comboni erano più adatte all’uopo, “le statistiche della Missioni africane avendo dimostrato che la donna europea, attesa la vantaggiosa elasticità del suo fisico, l’indole del suo morale, e le abitudini del suo vivere domestico e sociale, resiste a gran pezza più che il Missionario europeo all’inclemenza del clima africano”.

Dagli istituti impiantati sulle coste sarebbero scaturiti non solo i catechisti e i maestri (sempre e rigorosamente “d’ambo i sessi”) ma anche “virtuosi ed abili agricoltori, medici, flebotomi, infermieri, farmacisti, falegnami, sarti, muratori, calzolai etc.”, e io già mi sto immaginando tante piccole Bresce d’oltremare brulicanti di artigiani e partite iva. Eppure, con tutto il suo bresciano pragmatismo e la sua brescianissima testardaggine, a Comboni mancava forse il senso delle proporzioni: quella che lui affettuosamente chiamava “la grande famiglia dei negri” non era una famiglia in nessun senso: i popoli e le tribù dell’entroterra non avrebbero sempre ben recepito i missionari dalle coste, anche se avevano la pelle di un colore simile. Ma eravamo a metà Ottocento, in Europa e in America il “negro” era ancora sinonimo di schiavo. Nelle regioni della sua immensa diocesi il commercio di schiavi era stato vietato solo a parole: Comboni fece tutto quel che poteva per trasformarle in fatti. Al Concilio Vaticano I, come fece notare lui stesso, non c’era nemmeno un vescovo nero: quando all’inaugurazione del canale di Suez il Kaiser Francesco Giuseppe conobbe delle maestre nere che gli rivolgevano la parola in tedesco ne fu strabiliato. Erano studentesse comboniane. (Continua…)
Per rosicchiare il continente dai bordi, comunque, agli uomini e alle donne di Comboni sarebbe servito molto tempo e denaro; e in effetti forse Comboni da lì in poi viaggiò più per l’Europa per fare convincere scettici e a scopo di fundraising che in Africa, dove quando arrivava poteva finalmente concentrarsi sulla sua vocazione autentica, lontano dalle polemiche dei rivali e dalle malelingue che lo accusavano di avere una suora preferita. Può anche darsi che ce l’avesse, poveraccio, ma non dovevano permettersi di spifferarlo all’anziano padre. Questa cosa gli spezzò il cuore, e forse accelerò il decorso della malattia che lo uccise centotrent’anni fa oggi a Khartoum. Ne aveva cinquanta, per i parametri del Sudan di allora era già un uomo anziano, nel bel mezzo di una spaventosa carestia. Se fosse sopravvissuto un paio di anni, si sarebbe ritrovato al centro della rivoluzione del Mahdi, che si limitò a distruggere la sua sepoltura e a imprigionare i suoi missionari per più di dieci anni. Oggi i comboniani sono presenti in tutti i continenti: in sedici Paesi nella sola Africa. Hanno una rivista, “Nigrizia”, che è una fonte di informazioni di prima mano dai Paesi africani, e che soprattutto durante la direzione di padre Alex Zanotelli diventò un punto di riferimento per i cristiani più progressisti (Zanotelli poi dovette lasciare la rivista, si ritirò in Kenya, quindi tornò in Italia e divenne un leader noglobal: a proposito, se a i noglobal dovesse servire un santo protettore, direi che Comboni è libero). Oltre a “Nigrizia” i comboniani pubblicano anche il PM, che sta per “Piccolo Missionario”, ed è un giornaletto per bambini di cui mi è già capitato di parlare, anche se non ne ho più sfogliato uno dagli anni Ottanta, quando ero abbonato. Però mi è rimasto nel cuore.

Il PM non è che avesse dei fumetti meravigliosi. Alcuni erano proprio bruttini, e questo spiegava il perché se ne rimanesse incellofanato per intere settimane, finché non si esaurivano i Topolino inediti e i Braccio di Ferro prestati. Ecco, a quel punto si apriva il Piccolo Missionario e ci si trovavano storie a fumetti sulla vita di Santi famosi o del tutto sconosciuti; ma anche schede approfonditissime sui Paesi africani, così quando proprio non c’era più nulla di nuovo da leggere in casa, neanche le recensioni della GuidaTV o le ricette sulle confezioni dei biscotti, io mi mettevo da qualche parte e leggevo notizie sul postcolonialismo nella Guinea Conakry. Molti anni dopo, mentre scrivevo una tesina di letteratura francofona, avrei pagato qualcuno per riuscire a trovare informazioni fresche sui regimi della Guinea Conakry: ma wikipedia ancora non esisteva, e i vecchi Piccoli Missionari chissà in che scatolone erano andati a marcire.

In realtà era una specie di fanzine missionaria, si capiva che ognuno contribuiva per quel che poteva, con tanta passione ma poco rispetto per le scadenze. Eppure a distanza di anni ci sono pagine del PM che mi sono entrate dentro. Mi ricordo per esempio un articolone sui Testimoni di Geova, in cui per la prima volta scoprii che avevano già cannato tre volte la data della fine del mondo! Che buffoni! Il motivo per cui quell’articolo mi è entrato sottopelle è che ovviamente anch’io, in quegli anni, avevo una paura folle della fine del mondo, per via di questo o quell’asteroide o del 1999 o del 2000, e scoprire che i tizi del citofono ne avevano già annunciate tre senza beccarci mi tirò su il morale, rendendomi molto più scettico nei confronti di tutti i millenarismi. Così a scuola, quando mi capita di trovare un ragazzino terrorizzato dalle puttanate maya di Giacobbo (e ne trovo sempre, quell’uomo tra parentesi in questi anni ha fatto un uso criminale del mezzo pubblico), tiro sempre fuori questa storia dei Testimoni secondo i quali il mondo stava già finendo verso il 1914, e ci facciamo una risata. E di tutto questo sano scetticismo razionalista devo ringraziare, pensate, il Piccolo Missionario. E San Daniele Comboni, sempre sia lodato.

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.