Una proposta per Pasolini

Ogni tanto mi capita di andare a Bologna. Una volta arrivato in stazione prendo un autobus oppure me ne vado, a piedi, fino a strada Maggiore. Lì giro per una traversa e citofono a un portone. Entro. Non c’è ascensore. Salgo a piedi fino all’ultimo piano. Una porta si apre: luce grigia; saluti, “come stai?”. È casa di mio fratello. Di fronte a me, in fondo, vedo il salotto, con tutto il suo volume bianco che affaccia su un terrazzo. Spesso dormo proprio in quel salotto, sul divano. Ho deciso di scrivere queste righe anche per raccontare di questa stanza e della vibrazione che si lascia remotamente captare, ogni volta che ci metto piede.

La parete coperta da una libreria e dallo schermo di un televisore è quella che separa l’appartamento – mio fratello me lo rivelò all’epoca del trasloco – dal palazzo in cui nacque Pier Paolo Pasolini. Quindi basterebbe qualche colpo di piccone per vedere dall’altra parte, dove oggi, pare, l’edificio è vuoto e disabitato. Comunque chiuso e inaccessibile.

SALOTTO CASA

Di solito a Bologna mi fermo, al massimo, per la durata di un weekend. Se vado in bagno, se mi sposto in terrazzo, se ceno a tavola, se gioco con mia nipote, se leggo un libro a mia nipote, se mi sdraio sul divano per leggere un giornale, se lavo i piatti, se ascolto un disco, c’è sempre un puntino, infinitesimale e sprofondato nel planetario della mente, che tiene accesa la luce di un pensiero. Il fluorescente pensiero di sapersi a un passo dal luogo in cui Pasolini è nato. Ne sono certo, come se avessi tra le mani una tomografia. Questo punto appena pulsante della coscienza, semivivo filamento di tungsteno, costituisce una prova della mia venerazione per lo scrittore, di cui ricordiamo questa settimana i quarant’anni dalla morte.

Ma non si tratta evidentemente di semplice venerazione. Forse si tratta di religione, di feticismo, di un animismo che mi aggancia ogni volta che sono in queste stanze. Non ho neppure letto molto di Pasolini. Come tutti ho letto qualcosa di Pasolini, ma sono stato dolcemente avvelenato dalla forza immensa e totemica del mito, dal magnetismo della sua figura incamminata, in jeans e giubbotto di pelle nera, lungo un percorso iniziatico tracciato alla fine di un’epoca dell’umanità – come ha colto Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto – e insomma specie qui, in questa casa, non posso sfuggire alla vocina novecentesca di questo bambino, nato il 5 marzo 1922 in via Borgonuovo 4, figlio di Susanna e Carlo Alberto, che nella casa strilla, piange ed emette i suoi primi vagiti fatti di sole vocali.

Il palazzo è tutto vuoto come una canna, mi è stato detto. Proposta: aprirlo e occuparlo. Oppure, in questi giorni in cui commemoriamo, infilare sotto il portone un foglio con scritto qualcosa, spingendolo nel buio, nell’aldilà dell’edificio abbandonato. Poi quando qualcuno riaprirà quell’accesso, magari sarà un editore e ci farà un bel libro. Io lascerei il frammento di una poesia, Il mio desiderio di ricchezza, dove Pasolini descrisse una specie di casa dei desideri.

«[…] E una casa, in quartieri
abitati da gente che non dia pena,
un appartamento, al piano più assolato,
con tre, quattro stanze, e una terrazza,
abbandonata, ma con rose e limoni…
Solo fino all’osso, anch’io ho dei sogni
che mi tengono ancorato al mondo,
su cui passo quasi fossi solo occhio…
Io sogno, la mia casa sul Gianicolo,
verso Villa Pamphili, verde fino al mare:
un attico, pieno del sole antico
e sempre crudelmente nuovo di Roma;
costruirei, sulla terrazza, una vetrata
con tende scure, di impalpabile tela:
ci metterei, in un angolo, un tavolo
fatto fare apposta, leggero, con mille
cassetti, uno per ogni manoscritto
per non trasgredire alle fameliche
gerarchie della mia ispirazione…
Ah, un po’ d’ordine, un po’ di dolcezza,
nel mio lavoro, nella mia vita…
Intorno metterei sedie e poltrone,
con un tavolinetto antico, e alcuni
antichi quadri, di crudeli manieristi,
con le cornici d’oro, contro
gli astratti sostegni delle vetrate…
Nella camera da letto (un semplice
lettuccio, con coperte infiorate
tessute da donne calabresi o sarde)
appenderei la mia collezione
di quadri che amo ancora: accanto
al mio Zigaina, vorrei un bel Morandi,
un Mafai, del quaranta, un De Pisis,
un piccolo Rosai, un grande Guttuso…».

Da La religione del mio tempo, Garzanti

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).