«E gli animali?» Storia di un uomo nudo e di un festival a cui non partecipò nessuno

Ogni tanto una pallina, da un campo da tennis vicino, atterrava nel parcheggio del mobilificio di famiglia. Enrico raccoglieva da terra la palla, la tirava contro il muro e per un po’ giocava così: tirando la palla contro il muro. All’epoca era un bambino, ma la prima volta che è entrato dentro il ‘Tennis club Limido’ è stato soltanto nel giugno 2013. All’età di 36 anni. Un pomeriggio ha attraversato il piano di cemento screpolato dell’ex parcheggio, invaso dalle erbacce, e ha scavalcato la recinzione in metallo, atterrando con la suola delle scarpe tra i cespugli bruciati dal sole. Il ‘Tennis club Limido’, che affaccia su una strada a due corsie, è un’ex struttura sportiva, abbandonata da quasi un decennio. Enrico ha deciso di entrarci, e occuparla temporaneamente, per realizzare un progetto: un festival nudista, chiamato ‘Brat Camp-non lo show’. Qualche giorno dopo, in preparazione dell’evento, ha dipinto lungo il muro di cinta delle farfalle, dei fiori, dei conigli, sopra uno sfondo verde. Poi ha stampato dei volantini e delle locandine che ha distribuito nei paesi vicini: Cislago, Lurago Marinone, Carbonate, Gerenzano.

Enrico Bianchi vive in una piccola frazione tra la provincia di Como e Varese. Il suo messaggio è semplice: spogliatevi. Ma va dritto al cuore della civiltà, del rapporto di tutti con tutti, della relazione col proprio corpo (come si diceva nella controcultura anni ’70) e con il piacere. Mentre giriamo in bicicletta lungo le strade di campagna che vanno da Cislago a Limido Comasco, Enrico mi racconta di aver scritto al sindaco di Milano Giuliano Pisapia, all’ex premier Mario Monti, nonché ai sindaci dei piccoli comuni della zona, al parroco, chiedendo spazi per le attività di chi, come lui, desidera altre forme di convivialità, preferendo la pelle nuda ai vestiti. Enrico non ama i vestiti e chiama ‘il tessile’ tutto ciò che riguarda e ha a che fare con i vestiti.

Mentre mi racconta di sé, e di questo lembo estremo di settentrione, in un pomeriggio padano di sole incandescente, sopra la sua mountain bike, affiancati da grandi macchine agricole dai colori fluo e da fantasmi della civiltà contadina in salopette blu, bici Graziella e scarponcini sporchi di fango secco, i capelli di Enrico sono stretti in due ciuffi dentro i pugni di suo figlio, il piccolo Armando. Enrico regge il manubrio e Armando, un bambino molto quieto, intelligente, di appena due anni, siede sulle sue spalle aggrappato ai capelli del padre, sollevato per aria come un gruista dentro la cabina. È il metodo collaudato con cui la coppia cavalca il mezzo, rinunciando al classico seggiolino omologato da imbullonare al manubrio. Enrico solleva da terra con un braccio il bambino, tenendolo per un polso, e il bambino sale per aria, come un componente meccanico, fino ad agganciare le gambe intorno al collo del padre. Da lassù osserva e assorbe il mondo che gli corre attorno come un doppio nastro di pellicola. C’è qualcosa di meno umano e più animale, tra Enrico e Armando, un accordo corporeo profondo che ricorda il modo con cui i primati e i loro cuccioli comunicano e interagiscono nei documentari. La sicurezza con cui pedalano, in quella combinazione circense che farebbe crepare d’infarto, uno dopo l’altro, il cuore di dieci nonne ai giardinetti, è la prova dell’intima biologia che li tiene sempre collegati, e l’evocazione plastica di un verso di Victor Cavallo: “io accompagno mio figlio nel paradiso totale
senza nessun pericolo né gas né elettricità né politica”.

Mi racconta di quando andò in vacanza in California. «Avevo 16 anni ed ero in un periodo dark rock. Andavo in spiaggia tutto vestito. Il mare di San Diego non mi faceva grande effetto, essendo abituato alla Sardegna e alla Sicilia. La famiglia che mi ospitava mi consigliò di visitare una spiaggia naturista. Per cui la mia prima volta nudo è stata negli USA. Andai in spiaggia soprattutto per conoscere qualche ragazza e appagare i miei appetiti sessuali, ma poi mi conquistò proprio quel tipo di dimensione, al di là del sesso. È stata una grande gioia. Ad un certo punto, come temevo, mi diventò il pisello barzotto, di fronte ad una pallavolista, e quindi, per l’imbarazzo, mi buttai in acqua, tra le onde, e lì l’esperienza fu bellissima». E poi? «Tornato in Italia, insieme ad una fanciulla andavo a scopare nei prati, nei boschi, sul Ticino, e stavamo sempre nudi. Avevo 18 anni. Era un’esperienza di tipo più sessuale e carnale, che non aveva ancora a che fare con la filosofia del nudismo, ma era una cosa comunque molto pura e pulita. In seguito il piacere di spogliarmi ha accompagnato tutta la mia vita adulta, sia nell’aspetto erotico, ludico, edonistico, sia come modo di vivere a contatto col mondo naturale».

Passiamo di fronte alla villa dove un tempo viveva l’ex calciatore argentino Hernan Crespo e dove oggi abita Mario Balotelli, e forse Fanny. Parcheggiamo la bici ed Enrico m’invita ad avvicinarmi al grande cancello scorrevole in legno d’abete. Guardiamo, attraverso le piccole fessure, in fondo all’ampio giardino di casa Balotelli, dove il terreno affonda dentro una specie di avvallamento verde. «Quello era uno stagno, una volta, ed era pieno di animali. Quando andavo a scuola incontravo le volpi, i ricci o le rane, a seconda della stagione. La legge impone che non si possano cedere a privati fiumi, stagni, laghi, eppure qui è stato fatto». Dice di aver incrociato da lontano Balotelli, qualche giorno fa, e di aver in fretta e furia scritto su un volantino ‘Vieni alla festa nudista e porta qualche donna’. Ma nel frattempo Balotelli era già sparito sul Ferrari bianco. Pedaliamo lungo una strada molto trafficata: «Senti, quanto rumore». Poi dalla carreggiata, dove vanno e vengono camion, furgoncini e le utilitarie degli indigeni comaschi e varesotti, ci allontaniamo per duecento metri, lungo una stradina cieca che scende fino a scomparire sul ciglio di un bosco. «E senti, ora, quanto silenzio».
Pausa.
«Un tempo era così, mi capisci? Era tutto come adesso. Così». Da lì risaliamo, passando con le ruote sopra il cemento spezzato dalla pressione delle radici degli alberi, ed entriamo all’interno di una nuova area residenziale, costruita con tecnologia green, dove «è stato gettato troppo asfalto e le piste ciclabili sono interrotte da mille cartelli d’inizio e fine pista. I bambini non si sentono liberi in questo posto».

Al ‘Tennis club Limido’, oltre alle farfalle e ai conigli, sul muro di recinzione Enrico ha dipinto un grande glande rosa. Una specie di vulcano che domina placido sopra un paesaggio dolce da Teletubbies. In fondo al terreno, sulla sinistra, restano due gigantesche strutture tubolari in metallo, carapaci color verde acqua marina, sulle quali un tempo veniva steso il telone per la copertura dei campi. Gli uffici, l’amministrazione e gli spogliatoi erano invece nel piccolo edificio al centro del terreno. Qualcuno è entrato, in questi anni, e ha lasciato sulle pareti dei graffiti ispirati al manga giapponese. C’è una specie di Sailor Moon inseguita da una specie di B-boy col pene eretto. Il parquet è disseminato di schegge di vetro. Al piano interrato ci sono delle piastrelle, forse dei pezzi unici, decorate col disegno di un casco da motociclista. Il Tennis Club sembra immerso dentro dei layer di energia sottile, che sono forse le radiazioni di un universo wellness in voga tra gli anni ’70, ’80 e ’90. Ancora elettrico e vegeto, in qualche modo, sopra la distesa di graminacee e calcinacci. «Mi manca il sesso», dice Enrico, sorridendo, mentre Armando vaga tra il prato e i campi da tennis. Come quei bambini biondi e capelluti nei super8 delle famiglie hippie. «Mi mancano le donne». Nel sorriso di Enrico un sapore amaro si armonizza con il gusto di aprirsi, prende luce accanto ad un’ombra di autoironia, come uve diverse dentro ad un vino. «Questa cosa del naturismo, in cui io credo e confido, mi ha reso molto sospetto agli occhi delle donne e degli altri: mi ha reso più isolato». Il Brat Camp avrebbe dovuto svolgersi a giugno, nell’arco di un weekend. Erano previste delle sessioni di nude streching, nude art e uno spazio gioco per bambini. Enrico aveva preparato le bozze dei volantini, stampato le locandine, aveva sparso la voce e creato l’evento Facebook, ma nessuno è arrivato, se non Enrico, che ha montato una tenda e l’ha circondata di candele e lumini. Zero partecipanti. Ad un certo punto della notte è arrivata la polizia, con le torce, che ha bussato alla tenda e lo ha fatto sgomberare. «E mi hanno pure rubato una scarpa». Un paio di giorni dopo sulla cronaca di Mozzate, un paesino confinante con Limido, esce un pezzo dal titolo: «Limido. Sedute spiritiche all’ex tennis club». E la foto della tenda di Enrico montata nei pressi di un abete. «Immaginavo che non sarebbe venuta molta gente, anche perché ho organizzato tutto di fretta e molte persone hanno paura di scontrarsi con la legge. Peccato. Doveva essere un’occasione per riflettere sul consumo, l’ambiente, l’alimentazione e su ciò che a me sta a cuore: il natu-nudismo. Sono stato quello con la cravatta, sono stato il ragazzino che fa sport, il ragazzino della techno e della drum’n’bass, ma nudo sono io e basta. La nudità significa liberare me stesso da tutte le convenzioni».

«Mi capita spesso di andare in alcuni centri sociali, a Milano, dove mi conoscono come ‘l’uomo nudo’. Vado soprattutto quando fanno dancehall, dato che il reggae è la musica che si sposa meglio alla nudità. Però, anche nel caso dei centri sociali, dove in pista spesso mi spoglio, ho l’impressione di non essere capito e quando gli ho fatto delle proposte per delle iniziative natu-nudiste, ho ricevuto solo risposte negative. Anche con le ragazze non è facile comunicare. Non riesco più a fingere, non mi va di recitare per sedurle. Mi sembra che tra uomo e donna, oggi come oggi, si usi troppo la testa, che ci sia qualcosa di cerebrale di mezzo. La mia filosofia, invece, è più semplice, pura e giocosa. Anche nei gusti sono diventato molto radicale. Per esempio non mi piace più la donna truccata, in quanto il trucco mi sembra una forma di travestimento». «E le tue ex ragazze», gli chiedo, «come si ponevano nei confronti del tuo modo di essere, della tua passione per il nudo e della tua ricerca del piacere?». «Non molto bene», risponde Enrico, «anche perché le donne sono più bloccate, tendenzialmente monogamiche, mentre io sogno una famiglia allargata e poligamica, con altre femmine».

Nel 2012 Enrico, con l’appellativo di ‘L’uomo nudo’ stampato sulla scheda, si è candidato col Pirate Party nelle elezioni a sindaco per un minuscolo comune, Biello in provincia di Bergamo, prendendo zero voti. Neppure il suo, di voto, dato che ad un certo punto, mi racconta, «era venuta meno la fiducia nel partito e avevo deciso di abbandonare la campagna elettorale». Oggi lavora un po’ con l’e-commerce (si è laureato anni fa in Cattolica, economia e commercio, con una tesi sul distretto del mobile) «ma buona parte della giornata la passo a fare il mammo di Armando», un bambino che, per tutto il pomeriggio, è sembrato essere perfettamente tra, in mezzo agli adulti, e non al centro delle loro continue attenzioni.

Al tramonto Enrico e Armando mi riaccompagnano in bicicletta verso la stazione di Cislago. Armando, con le mani afferrate tra i capelli di Enrico, sembra il piccolo Atreiu seduto sul dorso di Falkor, il cane drago del film ‘La storia infinita’. Per un po’ pedalano di fronte a me, staccandomi di qualche metro e dandomi le spalle. Noto sopra i pantaloncini un pezzettino scoperto del sedere di Armando, un caratteristico sederino rosa e paffuto da bambino, così classico che potrebbe da un momento all’altro materializzarsi, accanto alla bicicletta, l’ippopotamo blu della Pampers. Qualche giorno dopo il mio viaggio a Cislago, avendo trovato il numero selezionato sul display del telefono del padre, Armando ha cominciato a chiamare sul mio cellulare. Tre, quattro, cinque volte:
«Mmff…»
«Pronto? Pronto?! Sei tu, Enrico? Chi è?»
«Mmff, meowww…mfff…wuiiii…»

Passiamo di fronte al cantiere della pedemontana, l’autostrada di 87 km che andrà a collegare Bergamo e Varese. A 20 km da qui, in una fascia di territorio spesso interessata da fatti di costume e cronaca riconducibili alla Lega Nord più antica e alla destra radicale e sommersa, 400 skinhead lo scorso aprile, in un paesino di nome Malnate, hanno festeggiato il centoventitreesimo compleanno di Adolf Hitler. Enrico accetta di scattare qualche foto di fronte alla voragine della futura pedemontana, un’opera che gli dispiace profondamente. Ci tiene a sottolinearlo («non serve a nulla, a livello sistemico, e sta sconvolgendo il paesaggio, scrivilo») anche se una caratteristica de l’uomo nudo -oltre a quella di esprimersi tramite una dialettica e una forma di argomentazione che somiglia ad un cono che aspira, sminuzza e avviluppa continuamente la conversazione- sembrerebbe quella di non essere mai arrabbiato, una grande mitezza, la capacità di restare sempre morbido e pacifico, come se, al di là di tutto ciò che accade in Italia, a Cislago o nel mondo, i suoi piedi fossero sempre nudi e immersi tra l’erba fresca dell’Eden. Se proprio devono farla questa pedemontana, dice, «che la facciano interrata», in modo che sopra possano rifiorire la terra e la natura. Solleva gli occhi verso l’alto e fa segno, preoccupato, alla presenza di alcune scie d’aereo in cielo. «Anche l’altro giorno ne ho viste, sai?». Quindi si guarda attorno, nudo, verso i caterpillar ruggenti che alzano la pala piena di terra verso il cielo padano, e conclude: «E poi, voglio dire: e gli animali? Dov’è che andranno a finire gli animali?».

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).