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  • Lunedì 2 settembre 2013

Le nostre prigioni

cesare deve morire

Il carcere se l’è sempre cavata bene a Hollywood. A quanto pare la prospettiva di un mondo recluso, dove una manciata di uomini ha il controllo e esercita il potere su molti altri, per altro giudicati colpevoli dalla società, ha sempre stuzzicato la fantasia di registi e scrittori. La fantasia, appunto, perché molto raramente i prison movies riescono a raccontare qualcosa di vero e significativo sul mondo del carcere. Inutile dire che sono spesso americani e che ci dicono sulla vita in prigione quello che un film con il tacchino farcito ci può dire di un nostro pranzo di Natale: niente nonni che si addormentano a tavola, o riferimento alle quindici portate di antipasto e alla battaglia silente tra le donne di famiglia su chi sappia cucinare il piatto più pesante. Poi si può sempre argomentare che la verità è impossibile da conoscere se non vivendo sulla propria pelle quest’esperienza e bla bla. Certo, ma tra l’immaginare un mondo di palestrati sbarbati di fresco e con gli occhi di ghiaccio alla Prison Break e gli uomini in calzini molli e ciabatte che camminano in cerchio fumando durante l’ora d’aria c’è un po’ la differenza che c’è tra un tacchino surgelato e la lasagna tirata a mano di mia nonna.

Talvolta qualche tentativo sincero di raccontare un mondo, anche made in Italy, lo riusciamo a trovare, ma purtroppo raramente diventa un must. Di Tutta Colpa di Giuda, di Davide Ferrario, si può sicuramente apprezzare il tentativo di raccontare un percorso anche personale attraverso una commedia musicale. Ma quello era il 2009, nel 2012 sono arrivati i fratelli Taviani, che partendo da uno spunto non poi così diverso, ovvero un corso di teatro fatto con i detenuti del tipo “Shakespeare goes to jail”, hanno portato lo spettatore a un altro livello con Cesare deve morire, raccogliendo un Orso d’Oro e cinque David.

Dovrei però dire che questa riflessione sulla verità della rappresentazione del mondo dietro alle sbarre nasce dalla faccia che ho fatto dopo aver letto un articolo che veniva presentato come un racconto fatto da una guardia carceraria. Fantastico, ho pensato, finalmente si varca quel confine rigidissimo che viene ostentato tra guardia e ladro, tra colpevole e innocente, quando in verità sia agenti che detenuti vivono parte della loro vita al fresco. Anzi le guardie spesso vi passano molto più tempo di detenuti con pene lievi. Anche io mi stupisco di come posso essermi persa in simili congetture nel tempo di aprire un link, ma già immaginavo storie divertenti e spontanee di quando gli uomini sono semplicemente uomini e riescono ad andare al di là dei ruoli. Poi, infine, l’articolo era questo . Già che si parlasse di USA mi ha fatto tornare in me, quando poi ho visto come il punto forte del racconto fossero le ispezioni corporali, mi è sorto il bisogno di scrivere qualcosa. Di dire, ok, ma non è tutto qui.

Lungi da me dire che per parlare di cose serie sia necessario essere impettiti e torvi, basterebbe qualche racconto vero, così, su due piedi. L’altro giorno, ad esempio, ero nel carcere di Fossano, provincia di Cuneo, a farmi raccontare delle storie che c’entrassero con il caffè. Sono entrata in una stanza spoglia, semplice, e appesi alle pareti c’erano i lavori fatti ad acquerello da detenuti di anni passati. Poi, uno per volta, gli agenti mi mandavano un detenuto che aveva chiesto di partecipare. L’agente lo chiamava all’altoparlante e dal secondo lui veniva al primo cortile. Qualcuno si prendeva in giro, qualcuno veniva in silenzio, tutti spontaneamente. Spesso aveva preparato dei racconti scritti a mano su fogli protocollo, in inglese, in francese, in italiano. Qualcuno mi raccontava pezzi di vita, regalandomi storie vere o inventate ma comunque fresche. Ecco, io questo vorrei dire. Vorrei dire che Tarik in carcere è diventato mastro torrefattore, ma poi, quando è uscito non ha trovato lavoro e ha fatto l’unica cosa che sapeva fare. Ed ora è dentro di nuovo. Oppure che Grheury aveva in mano un biglietto per andare in Belgio, via dall’Italia e dai CIE che lo avevano accolto, quando sul tram numero 4, a Torino, ha incontrato una donna, l’ha guardata e invitata a bere un caffè. Lei è diventata sua moglie, lui non è partito più, ma di lavoro non se ne trovava e l’hanno preso mentre spacciava in San Salvario. O di Fabio, che un giorno al mercato si innamorò di una ragazzina, chiese a suo padre di organizzare un incontro tra le famiglie e si fidanzò. Con Ofelia, così si chiamava, non ebbe modo di parlare molto, perché in quei giorni con gli amici si andava nei fine settimana su al Nord a fare le rapine. Lo presero presto e in Calabria da Ofelia non ci tornò mai più. Queste sono le storie delle nostre prigioni, le storie che ci raccontano dove vince e dove fallisce l’Italia.

– Giulia Grimaldi –

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.