Le donne sono la migliore arma contro il terrorismo

Lo scorso febbraio Radhika Coomaraswamy e Phumzile Mlambo-Ngcuka hanno scritto un articolo intitolato “Le donne sono la migliore arma nella guerra contro il terrorismo”. La prima è ex sottosegretaria generale delle Nazioni Unite, rappresentante speciale per i bambini e i conflitti armati, la seconda dirige l’UN Women, Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della tutela della parità di genere e del ruolo della donna nel mondo. Il loro ragionamento (a cui ho ripensato nel giorno del primo anniversario del rapimento di 276 studentesse in Nigeria) parte da un’evidenza. I movimenti estremisti che vanno dalla Nigeria all’Iraq, dalla Siria alla Somalia, dal Myanmar al Pakistan hanno un elemento in comune: la violenza feroce contro le donne e la limitazione della libertà femminile. E non come prodotti collaterali o incidenti di percorso.

Gli Yazidi che sono sopravvissuti agli attacchi dello Stato Islamico (ISIS) hanno parlato di donne e bambine vendute al mercato, stuprate, ridotte a schiave sessuali, costrette al matrimonio e alla conversione. Le stesse storie sono state raccontate dalle ragazze nigeriane sfuggite a Boko Haram, da quelle somale liberate da al Shabaab, da quelle che vivono sotto il controllo di Ansar Dine nel nord del Mali. Il nome e il luogo possono non essere gli stessi, ma identici sono i limiti imposti alle donne – o quelli che si vorrebbero imporre – nell’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari, alla partecipazione alla vita economica e a quella politica. E identico è il meccanismo con cui tali restrizioni vengono fatte “rispettare”: «una violenza terrificante».

A partire da qui, Radhika Coomaraswamy e Phumzile Mlambo-Ngcuka scrivono che se nel “programma” dei vari movimenti estremisti la questione femminile è questione primaria, non altrettanto accade nella risposta contro l’estremismo. La promozione della parità di genere o il suo riconoscimento non rientrano insomma tra le priorità della comunità internazionale contro questi movimenti: «La comunità internazionale deve riconoscere, esattamente come fanno gli estremisti, che l’autorità e la libertà delle donne sono a fondamento di comunità forti, stabili e che possono resistere alla radicalizzazione». Ogni passo in avanti per i diritti delle donne è un pezzo di lotta contro il fondamentalismo, ha detto la sociologa Zeinabou Hadari, che ha lavorato per oltre due decenni sulla promozione dei diritti delle donne in Niger. A questo, si aggiunga il fatto che il sapere delle donne sulla violenza maschile può essere d’aiuto nell’elaborazione di un pensiero sulla e contro la violenza del terrorismo jihadista.

«Quindici anni fa, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1325 sull’importanza della partecipazione delle donne in tutti i settori legati alla pace e alla sicurezza, tra cui la prevenzione dei conflitti, la risoluzione dei conflitti, e la costruzione della pace. Questo traguardo è il risultato di decenni di attivismo culminato in un’idea rivoluzionaria: che la pace è indissolubilmente legata alla parità tra uomini e donne».

La legittimazione delle donne è una forza potente per la crescita economica, la stabilità sociale e politica, e anche per una pace sostenibile. E non è un caso, scrivono ancora, «che nelle società e nelle comunità in cui gli indicatori di genere sono più alti, le donne siano meno vulnerabili agli impatti dell’estremismo violento».

La risposta della comunità internazionale è principalmente una risposta militare (spesso necessaria) che può fermare l’avanzata dei gruppi estremisti, ma non può sconfiggere le ideologie radicali che li muovono. I governi impegnati a combattere il terrorismo concentrano inoltre le loro risorse sulle operazioni militari, costose, e i ministeri sociali sono spesso i primi ad affrontare tagli di bilancio. Questo spostamento ha un costo molto alto sulla vita delle donne lasciandole sostanzialmente esposte: «L’incapacità di prevenire questi effetti negativi costituisce una deliberata negligenza. Essa si traduce in una ri-vittimizzazione delle donne, e in ultima analisi in maggiore povertà, maggiore disperazione e maggiore radicalizzazione». Questo significa quindi che «la lotta contro l’estremismo non deve e non può essere trattata esclusivamente, o anche prevalentemente, come un’esercitazione militare».

Sono in molte a saperlo e ad agire, anche al di fuori delle grandi organizzazioni (leggete questa storia, per esempio, che è una delle tante). E sono diverse le organizzazioni nel mondo che utilizzando il ruolo strategico delle madri e delle donne all’interno delle famiglie per costruire sistemi di allerta precoce basati sul sospetto che i mariti, i fratelli o i figli possano essere coinvolti con i gruppi estremisti. Ma è anche importante che gli impegni della comunità internazionale per lo sviluppo e il sostegno della parità di genere non rimangano solo delle belle teorie.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.