Un altro discorso

Ho visto l’intervista di Lucia Annunziata con Cécile Kyenge a In mezz’ora di domenica e sono d’accordo con quanto è stato già scritto sul fatto che sia stato un episodio poco edificante. Le domande di Annunziata, come cercherò di spiegare, sono state un doloroso esempio di quanto ancora ci sia da fare nella cultura dei diritti italiana e nelle prospettiva con cui vengono considerati questi problemi nel dibattito pubblico.

Già la partenza dell’intervista è stata decisamente in salita: «la cosa più intrigante della sua biografia è che lei ha 38 fratelli», è stata la prima domanda, a cui ne sono seguite altre come «di che religione è suo padre?»: puntigliose curiosità personali che ho seri dubbi che sarebbero state poste ad altri ministri o politici. Ne sono seguite altre dello stesso tenore come «cattolica quanto?» e «Lei sente i suoi fratelli?» fino a «su ogni aspetto della sua biografia, del suo passato e presente che non è minimamente in regola, e sono tanti, essendo lei una persona di un nuovo mondo…»

Ma in un succedersi di domande disarmanti, almeno per me, Annunziata ha posto anche la domanda «c’è stato un momento mai in cui lei è stata una clandestina?» Qui, al di là del caso personale, credo che si ponga il problema principale per cui l’approccio sottointeso alla domanda di Annunziata è una spia di una delle tante cose che frenano l’ingresso di questo paese in una vera cultura dei diritti civili.

Il problema è la lettura della questione dell’integrazione tagliando le cose con l’accetta di pregiudizi e di grossolane generalizzazioni, il miglior esempio delle quali è stata la frase «Lei della sua Africa si porta dietro una quota di, che so, politeismo, animismo…».

Un atteggiamento tipico di questa visione è l’automatica identificazione del problema dell’integrazione con quello dell’immigrazione clandestina e dell’illegalità, che è frutto di un pluriennale martellamento del centrodestra italiano, a cui l’opposizione di centrosinistra, come in tanti altri campi, è sempre andata al traino senza avere la forza o il coraggio di mettere avanti una proposta alternativa. Questa correlazione ha rimosso i tanti dati, che sarebbe dovere del centrosinistra urlare sui tetti, che mostrano come nella percezione contrabbandata dal centrodestra sulla popolazione migrante italiana ci siano una serie interminabile di infondati luoghi comuni e un odioso sottofondo razzista nei suoi rappresentanti più estremi (di cui abbiamo avuto infatti il piacere di risentire le opinioni in questi giorni).

Il risultato, nel discorso pubblico, è un completo appiattimento sulle posizioni dei “nemici” a cui Annunziata ha voluto dare voce, dimostrandosi, mi pare, ugualmente incapace di introdurre un discorso culturale e politico alternativo. Dare spazio a quegli attacchi, e qui mi pare che stia il nocciolo, significa riconoscerne la legittimità; significa anche porsi in un atteggiamento difensivo e subordinato rispetto a posizioni che presuppongono che un cittadino italiano abbia qualcosa da chiarire e da spiegare per il solo fatto di avere la pelle nera. Questa posizione mi sembra inaccettabile.

Non ho visto vere domande che, invece della posizione dei “nemici”, fossero inquadrabili in positivo in una cultura dei valori della sinistra, come l’uguaglianza e l’integrazione. Annunziata, che certo di sinistra si dichiara, ha ritenuto di non dare spazio a una visione del mondo e del problema alternativa, e il sospetto è che non sia successo perché quel modo di vedere le cose è dato per scontato in una parte ampia – magari minoritaria, ma certo ampia – della società italiana.

In concreto, un’alternativa sarebbe stata dare per scontato che la legge attuale sulla cittadinanza è inadeguata, farraginosa e ingiusta, che produce attese e burocrazia infinite, e che allo stesso tempo in Italia continua quotidianamente la situazione vergognosa dei CIE e sopravvive la legge che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina: un evolversi della legislazione di cui, negli ultimi anni, sono stati sempre più accentuati gli aspetti repressivi frutto della considerazione della questione come di solo ordine pubblico, oltre ad avere parecchi dubbi di costituzionalità.

Tra i commenti dei giorni successivi c’è stato poi quello di Gian Antonio Stella, che imputa al ministro «una certa euforica loquacità» che io, negli interventi di Kyenge che sono emersi finora, semplicemente non vedo, ma sarà cattiva informazione mia e Stella avrà sicuramente più informazioni di me. A me sembra che Kyenge abbia un passato che ne garantisce almeno la competenza in materia e abbia usato soprattutto le argomentazioni del dialogo, della complessità dei temi, del grande rispetto per le competenze dei rispettivi ministri (vedi la risposta sulla questione dell’immigrazione clandestina).

Stella, che in apertura utilizza la mossa retorica di riportare il parere del presidente dei medici stranieri in Italia (un cittadino italiano di origini palestinesi), si esercita nel mettere avanti le mani prima ancora di conoscere nello specifico la proposta che Kyenge deve ancora circostanziare. Lo ius soli si può declinare in un’infinità di modi; non mi pare, ma forse mi è sfuggito, che qualcuno stia portando avanti con intransigenza il fatto che esso debba essere “puro” e non soggetto ad alcuna limitazione, improvvisamente scavalcando per apertura tutte le legislazioni europee. Non sappiamo quanto e come verrà temperato il principio, in un futuro disegno di legge, ma prima ancora di saperlo è urgente per Stella sottolineare i distinguo, i dubbi, le precisazioni rispetto a qualcosa che non c’è.