Il modello francese non è la risposta

In questi giorni di crisi politica si sente dire spesso che l’attuale legge elettorale – il famoso Porcellum – è uno dei problemi principali, se non il problema principale: le forze politiche dovrebbero mettersi d’accordo almeno per cambiare quella e poi si potrebbe tornare a votare. Con la nuova legge, i problemi di instabilità sarebbero risolti e avremmo finalmente una maggioranza chiara. Ci sono diversi motivi per cui la riforma della legge elettorale non è veramente il modo di risolvere questa situazione di crisi e bisognerebbe pensare seriamente, credo, anche al modo in cui bisognerebbe cambiarla.

Il problema principale del Porcellum è che il premio di maggioranza al Senato è assegnato su base regionale, mentre alla Camera è assegnato su base nazionale: a seconda dei risultati nelle varie regioni, quindi, è possibile (come è successo alle ultime elezioni) che la Camera vada a uno schieramento e il Senato ad un altro, ad esempio quello che ha vinto in determinate regioni-chiave molto popolose o “in bilico”.

L’ipotesi di modifica invocata più spesso è una legge elettorale di tipo francese. Se si guardano le cose più da vicino, in realtà, l’opinione non sembra molto giustificata. Anzi, la proposta è particolarmente fumosa: il “modello francese” sarebbe l’ideale per la Camera o per il Senato? In entrambi i casi non risolverebbe l’attuale situazione di stallo.

In Francia, i 577 membri dell’Assemblea Nazionale sono eletti in altrettanti collegi che eleggono un solo deputato ciascuno. C’è un ballottaggio, il che vuol dire che al secondo turno in ogni collegio vanno i due che hanno preso più voti al primo (tralasciamo gli aspetti più complicati della legge francese, per cui è possibile che al ballottaggio vadano tre candidati ma in pratica non succede quasi mai).

Immaginiamo che in Italia si voti la prossima settimana con questo sistema. Il territorio nazionale viene diviso per la Camera in 630 collegi, tanti quanti sono i deputati, e in ogni collegio (parecchi per ciascuna provincia) emergono quasi dappertutto tre candidati “forti”: uno del centrodestra, uno del centrosinistra, uno del M5S. Da qualche parte viene fuori anche uno di Monti. Secondo le percentuali di ogni collegio, però, solo due vanno al ballottaggio.

Tra due settimane si vota di nuovo e in ciascuno dei 630 collegi c’è una sfida tra due contendenti: da qualche parte sarebbe centrosinistra contro centrodestra, da qualche altra centrodestra contro M5S, da qualche altra ancora Monti contro centrosinistra. L’elettorato si coalizzerà una volta in un modo e una volta in un altro per far eleggere l’uno o l’altro candidato, secondo parecchie variabili anche locali, in sostanza imprevedibili.

In mancanza di un’alleanza precedente tra gli schieramenti, non c’è motivo di pensare che gli elettori del M5S, per esempio, votino sempre per il centrosinistra quando il suo candidato va al ballottaggio contro un candidato di centrodestra. Potrebbero molto verosimilmente restare a casa. Perché alla fine dovrebbe emergere una maggioranza più chiara di quella attuale? Se il modello francese fosse adottato per la Camera, inoltre, molto probabilmente avremmo perso una maggioranza chiara anche lì.

A margine. Le leggi elettorali non calano dal cielo e quella francese ha almeno una grande conseguenza politica, che spiega in parte perché là sia stata scelta. In concreto, il sistema elettorale tiene costantemente fuori dai giochi l’estrema destra del Front National, perché ogni volta che uno dei suoi candidati arriva al ballottaggio l’elettorato si compatta contro di lui. Nonostante al primo turno del giugno 2012 il FN abbia preso il 13,6 per cento su scala nazionale, alla fine del secondo turno il partito ha ottenuto 2 (due) deputati.

C’è il fatto che in Francia è prevista l’elezione diretta del presidente della Repubblica, che in sostanza può governare anche se ha un parlamento “contro” (ma anche su questo si è intervenuto). Ma qui si rischia di fare confusione: l’Italia è una repubblica parlamentare, e senza la fiducia del Parlamento non si fa nulla o quasi, anche se questa storia dei “saggi” sembra mettere in questione il principio (ma non divaghiamo). Non bisogna confondere la legge elettorale – maggioritario a doppio turno francese vs Porcellum italiano – con il sistema istituzionale – repubblica parlamentare vs repubblica presidenziale.

Tra l’altro, da qualche anno le elezioni parlamentari francesi sono state spostate subito dopo le presidenziali, così che le prime facciano da traino alle seconde e che si verifichi più difficilmente il caso di un parlamento di un colore e di un presidente di un altro come è avvenuto in precedenza.

Se domani si votasse con una legge “francese”, alla Camera oppure al Senato, non si garantirebbe quasi certamente una maggioranza chiara a nessuno, anche se ci sarebbe qualche spostamento percentuale nei risultati (ogni volta che si cambia la legge elettorale ce ne sono) e qualche alleanza elettorale diversa (o qualche partito nuovo). Semplificando un po’, finirebbero in parlamento un sacco di deputati del PD eletti in Toscana, parecchi del M5S eletti in Sicilia o in Romagna e molti del centrodestra eletti in Lombardia.

Si potrebbe pensare di diventare francesi in tutto e per tutto e di fare una riforma costituzionale in senso presidenziale. Ma guardiamo in faccia la realtà: l’ultimo che ha proposto più volte una riforma istituzionale in senso presidenziale, venendo altrettante volte deriso, è stato Berlusconi (come in quella terribile conferenza stampa con Alfano poco dopo essersi dimesso). Con questo non voglio dire che sia un bene o sia un male: ma che una profonda riforma istituzionale che vada in senso presidenziale, negli ultimi anni, non è mai sembrata un’opzione realmente sul tavolo.

La questione politica di fondo è che attualmente, in Italia, ci sono tre diversi schieramenti politici molto poco inclini all’alleanza che hanno pressapoco la stessa percentuale di voti (con un altro polo sopra il 10 per cento). Ricordiamo i risultati delle elezioni di febbraio alla Camera: il centrosinistra ha preso il 29,55 per cento dei voti, il centrodestra il 29,18 e il M5S, da solo, il 25,55.

Quindi, al di là di cambiamenti radicali con cui una legge elettorale potrebbe dare una maggioranza chiara alla Camera e al Senato a uno dei tre schieramenti la prossima volta che si va a votare, si pone a un certo punto un serio problema di legittimazione democratica di quello schieramento.

Come ha detto Paolo Mieli, esagerando un po’ ma cogliendo un punto importante, il problema vero del centrosinistra non è l’assenza della maggioranza al Senato, ma il fatto che con poche decine di migliaia di voti in più degli altri si ritrova con oltre cento deputati in più alla Camera. In questi periodi di crisi, passi, ma alla lunga diventa molto difficile da giustificare davanti agli avversari politici e davanti all’opinione pubblica.

È vero che cambiare la legge elettorale provoca alcuni spostamenti di voti: se ci fosse un proporzionale puro fiorirebbero i partitini, con l’attuale legge elettorale sono favorite le coalizioni. Ma non esiste nessuna legge elettorale democratica che fa sparire una delle tre coalizioni quando queste hanno preso il 29,5, il 29,1 e il 25,5 per cento, perché porrebbe qualche problema, appunto, di democrazia.

Un interessante articolo su lavoce.info ha ipotizzato che l’unico sistema che potrebbe dare qualche garanzia sarebbe uno che assegni tutti i seggi di una regione alla coalizione vincente: una specie di super-Porcellum, insomma. In quel caso, alle ultime elezioni avrebbe ottenuto una larga maggioranza il centrodestra. Ma siamo sicuri che, se si tornasse a votare tra due mesi con una legge elettorale del genere, il M5S non otterrebbe la maggioranza relativa in nessuna regione, come è successo a febbraio? Perché se accadesse, come è probabile che accada, saremmo al punto di partenza.

C’è poi un problema molto serio di carattere istituzionale, che in fondo è alla base di tutta la questione. In Italia c’è il cosiddetto bicameralismo perfetto, caso molto raro nel mondo (praticamente lo ha avuto solo la Romania post-comunista, ma anche questa lo ha modificato nel 2003): tutte le leggi devono essere approvate nello stesso identico testo da Camera e Senato, e il governo ha bisogno della fiducia di entrambe le camere per governare.

Di conseguenza, una legge elettorale che permette esiti parecchio diversi alla Camera e al Senato è destinata, prima o poi, a produrre situazioni di ingovernabilità come l’attuale. Uno studioso dei sistemi parlamentari ha scritto che un bicameralismo perfetto inserito in un sistema di governo parlamentare è “semplicemente cercarsi delle grane”. E questo è uno dei motivi principali per cui il Porcellum non è una meraviglia, per usare un eufemismo.

Negli anni si sono fatte moltissime ipotesi per cambiare il nostro sistema istituzionale e superare il bicameralismo perfetto, dalla commissione Bozzi degli anni Ottanta al referendum fallito del centrodestra del 2006. Nessuno ha prodotto risultati concreti, e in tempi più tranquilli di questi.

L’unico cambiamento della legge elettorale ragionevole, fin quando il governo avrà bisogno della fiducia di entrambe le camere, è quello che creerà di nuovo la situazione che c’era prima del Porcellum: alla Camera lo stesso risultato del Senato. E come abbiamo visto, cambiare “alla francese” non sembra una buona idea.