Daje al black block

Grazie a dio, è sul finire la settimana del “daje al black block”. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati le Iene Enrico Lucci ed Enrico Brignano: mentre il secondo in un monologo comico li ha apostrofati come “teste di casco”, il primo ha ripetuto più volte attorno alle ore ventuno che quel migliaio di facinorosi erano proprio e solo “teste di cazzo”.

Quanto è patetico l’italico conformismo che accumuna iene, comici e blasonati editorialisti di fronte a fatti sventurati e li arma di civismo ultra pop, sfogato – come chiedono i tempi – con improperi e sfottò. Sprangate dialettiche e sampietrini in corsivo, ecco cosa mi sembrano quegli epiteti – dal singolare “piccoli stronzi” al più comune “dementi” passando per “coglioni” e “pirla” – che sono rimbalzati da un fondo di prima pagina a una trasmissione televisiva, come un mantra ipnotico atto a costruire distanze tra noi e “la feccia che la nostra società ha prodotto”. Feccia che poi è merda.

Lo dico subito, sapendo che non basterà, ma non è moralismo: a me le parolacce piacciono ma bisogna saperle usare, come tutto. E non come fa il giornalista del quotidiano che compro in edicola: lui non mi fa ridere, non mi indigna, mi rende insofferente. Oltre a non dirmi niente di diverso – nei modi, perché di quello stiamo parlando – dal mio compagno di classe amico di Facebook che posta i suoi malumori proprio come faceva anni fa a scuola, passandomi sotto il banco il bigliettino con scritto “la prof è una stronza”. Sarà la contaminazione del linguaggio dei social network, mi sono detto.

Eppure non sono tranquillo, rimango insofferente davanti a tutto questo. Servisse a qualcosa mi metterei una benda da pirata sull’occhio – giusto per tirarmi dietro un paio di vaffa – pensando non ai black block ma a Luciano Bianciardi, anche lui anarchico (per molti da sabato è diventato un insulto: “anarchico!”), anche lui idealmente un tragicomico riottoso, che nel suo romanzo più noto aveva progettato di far saltare in aria col tritolo il mitico Pirellone, simbolo che il capitalismo che fu e che c’è ancora. Luciano Bianciardi non era un Indignato, non sarebbe mai riuscito a dire agli altri “Indignatevi!”: era un Insofferente, e tra sé in solitaria soffriva. Non vomitava parolacce, e sfido a trovare, tra le poche che ci sono nella sua consistente bibliografia, quelle usate per apostrofare qualcuno. Ok, lui aveva stile, e questi altri – giornalisti, scrittori, editorialisti ecc. – no. Ok, non c’era Facebook. Ma immagino quanto avrebbe sofferto leggendo su un giornale, magari un giornale di sinistra (i più vigorosi oggi nel “daje al black block” via parolaccia), tutti quegli “stronzetti” e “teste di cazzo” rivolti agli incappucciati di Roma. Forse avrebbe preferito i giornali di destra che li chiamano “terroristi”. Almeno avrebbe potuto rispondere. Alle parolacce, si sa, non si risponde.

Giovanni Robertini

Vive a Milano. Come autore televisivo ha fatto parte del gruppo di brand:new e di Avere Ventanni per Mtv; de L'Infedele e di Invasioni Barbariche (dove si trova ora) per La7. Ha pubblicato il libro "Il Barbecue dei panda - L'ultimo party del lavoro culturale"