Israele e Palestina, e ora che succederà?

Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.

Capitolo 1 – La strategia d’Israele (leggi qua)
Capitolo 2 – Israele e i civili (leggi qua)
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza? (leggi qua)
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?) (leggi qua)
Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà?

Ho aspettato diversi giorni prima di scrivere questo ultimo capitolo della guida per cercare di seguire il punto d’arrivo delle vicende delle ultime settimane, così da raccoglierne gli esiti e le influenze sugli scenarî futuri. Israele e Hamas, però, sono ancora lontane dal trovare un accordo che chiuda la questione – o la congeli – per qualche tempo. Non è da escludere che a una vera tregua non si giunga proprio, ma che lancio di razzi e incursioni israeliane continuino nei prossimi mesi, soltanto con una frequenza minore. Del resto, è bene tenere presente che questo è un conflitto che, a bassa intensità, non si è mai interrotto: anche nei mesi più lontani dai tre veri interventi militari israeliani, quelli in cui in teoria una tregua era in vigore, razzi da Gaza hanno continuato a colpire Israele, che ha continuato con le proprie incursioni in territorio palestinese.

Per questo è difficile definire quale parte abbia “vinto” questa nuova guerra a Gaza, anche perché le parti sono tre: Israele, Hamas, e Fatah. Ciascuna di queste parti ha buone ragioni per volere l’indebolimento di entrambe le altre, e per questo si trova ad avere un nemico in comune con un proprio nemico. Israele vuole indebolire militarmente Hamas perché è l’unica parte che le si oppone armi alla mano, ma vuole indebolire politicamente Fatah perché un’ANP debole è la garanzia della prosecuzione dello status quo nei Territorî Occupati (il massimo territoriale a cui Israele possa aspirare). Hamas vuole colpire Israele, per ovvie ragioni, ma al tempo stesso vive qualunque vittoria diplomatica di Fatah come una minaccia per la propria presa sui palestinesi. Fatah è alleata di Hamas nel cercare di indebolire Israele per costringerla a interrompere l’occupazione, ma è alleata con Israele nel cercare una soluzione diplomatica che metta Hamas fuori dai giochi.

Questo triangolo intricato rende l’analisi delle vicende molto complessa: perché si può al tempo stesso sostenere che Israele a Hamas facciano lo stesso gioco (Hamas è alleata con Israele), che gli israeliani non abbiano un interlocutore (Fatah è alleata con Hamas), o che Fatah stia facendo il poliziotto per Israele in Cisgiordania (Israele è alleata con Fatah). Sono tutte cose vere, utili da citare nelle proprie analisi, ma che prese singolarmente non restituiscono la completezza del quadro.

ISRAELE
Perché ha vinto: non c’è dubbio che, militarmente, la vittoria israeliana ci sia stata. Israele ha colpito fortemente le infrastrutture di Hamas che ha dato fondo al proprio arsenale di missili. Questi si sono dimostrati molto meno pericolosi rispetto al passato (si è passati dall’avere 1 ferito ogni 3 razzi lanciati nel 2008, a 1 ogni 8 nel 2012, a 1 ogni 35 nel 2014), grazie principalmente al perfezionamento di Iron Dome. In sostanza, la minaccia posta dall’arsenale di Hamas si è rivelata essere minore di ciò che temevano in molti, e il fatto che Netanyahu abbia autorizzato l’operazione di terra (lo scenario che avrebbe portato Hamas alla resa dei conti) è stata la dimostrazione di questa fiducia. Durante il conflitto si è anche dimostrata la portata del cambio di regime in Egitto, da uno pro-Hamas a uno fortemente anti-Hamas: il governo di al-Siisi ha usato ogni occasione per delegittimare Hamas, anche al costo della propria efficacia nel ruolo di mediatore. Questo fa certamente tirare un sospiro di sollievo agli Israeliani.

Perché ha perso: è vero, però, che data la sproporzione di mezzi, sul successo militare israeliano non c’era alcun dubbio, ciò che era in discussione era il prezzo che Israele avrebbe pagato, e questo prezzo è stato molto alto. Durante e dopo l’invasione di terra sono morti molti più soldati – a oggi sono 64 – che in tutti gli altri interventi, come all’esercito israeliano non succedeva dalla Guerra in Libano. Inoltre Israele non è riuscito a raggiungere l’obiettivo che aveva dichiarato, quello del disarmo di Hamas, e verosimilmente non ci riuscirà. Successivamente, Netanyahu aveva spostato l’attenzione sui tunnel, dicendo che l’obiettivo dell’invasione era quello di distruggere tutti i tunnel di Hamas. È stato con questa posteriore “missione compiuta” che Netanyahu ha annunciato la fine dell’operazione di terra, ma Hamas ha subito mostrato ai media come neppure questo successo fosse stato ottenuto. È molto interessante, perché spiega la dinamica delle dimostrazioni di forza di questo conflitto: Hamas ha ancora dei tunnel in funzione, ma non sceglie di nasconderne l’esistenza per preservarli, bensì li pubblicizza in modo da inferire un colpo mediatico a Israele.

HAMAS
Perché ha vinto: partendo da una posizione di quasi completo isolamento internazionale, Hamas è riuscita ad arrivare a questo punto del conflitto senza fare alcuna concessione. È vero che militarmente ha perso, ma nessuno si aspettava che vincesse. Quello che Hamas si proponeva era di uscire dall’angolo dell’isolamento internazionale: per quanto la situazione geopolitica non sia cambiata, è chiaro che ogni guerra che Israele fa è mediaticamente perdente agli occhi del mondo. Inoltre, sul fronte interno, Hamas ha dimostrato di essere l’unica forza in grado di creare un vero problema a Israele, di costringerla a trovare una soluzione alla questione palestinese. Hamas può ben dire che, se non ci fossero i suoi missili, Israele continuerebbe con la propria occupazione indisturbata, senza che la questione abbia alcuna attenzione da parte della comunità internazionale né che Israele si ponga alcun problema.

Perché ha perso: è vero che Hamas non ha fatto concessioni, ma in alcuni frangenti – come nelle violazioni delle tregue – è sembrato che questa posizione derivasse più che da estrema forza, da estrema debolezza. Hamas è entrata in questo conflitto in una posizione complicata, quasi da ultima spiaggia. Fra le pressioni dei gruppi ancora più estremisti (oppure legati all’Iran) nella Striscia, e la necessità di emanciparsi dal ruolo di forza islamista per uscire dal proprio isolamento, Hamas ha dato segnali contraddittorî. C’è sicuramente uno scollamento fra la leadership politica e quella militare, le Brigate al-Qassam, e non è un caso che la prima viva lontano da Gaza, mentre la seconda viva a contatto con gli altri gruppi. In tutto questo, Fatah ha più volte affondato il colpo sull’irragionevolezza delle azioni di Hamas, sostenendo che siano soltanto causa di ulteriore sofferenza per la gente palestinese che, ovviamente, è stufa di continue guerre.

FATAH
Perché ha vinto: Fatah beneficerà certamente della nuova attenzione alla questione: quando la comunità internazionale cercherà un interlocutore, quello sarà certamente Abu Mazen, così come è già successo in Egitto durante i ripetuti tentativi di arrivare a un cessate il fuoco. Da qualche anno Fatah ha abbandonato la lotta armata e si è affidata alla diplomazia: Abu Mazen ha riconosciuto il disperato bisogno di una leadership palestinese presentabile, e di un interlocutore nei colloqui di pace, che il mondo manifesta, e sta provando da anni a essere questo interlocutore. Alcune piccole vittorie le ha ottenute, come il riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu. In questo momento, la situazione internazionale è molto favorevole e prima dell’intervento Fatah si confrontava con un Hamas tanto indebolito da essere costretto ad accettare un governo di unità nazionale con Fatah alla guida, e senza neanche un ministro di Hamas.

Perché ha perso: Abu Mazen non è riuscito nel suo principale obiettivo, che era quello di siglare un accordo di cessate il fuoco nelle veci di Hamas, così da mettere il Movimento Islamico di Resistenza ancora più in secondo piano. Nei fatti, Fatah sperava che l’intervento israeliano indebolisse Hamas tanto da costringerlo a rivolgersi a Fatah, nelle vesti di genitore responsabile. Questo non è successo, e in Israele c’è chi dice che uno dei motivi per i quali Israele non è andato fino in fondo nella propria invasione di terra è proprio per non legittimare troppo l’ANP, così da essere costretti a sedersi seriamente al tavolo di pace. Inoltre, pochi giorni fa si è saputo di un piano di Hamas per rovesciare il governo di Fatah in Cisgiordania molto simile a quello che era successo a Gaza. In altre parole, Abu Mazen sa di non potersi fidare né degli israeliani né di Hamas, e l’unico vero alleato che ha – la comunità internazionale – sembra guardare dall’altra parte per la maggior parte del tempo.

E QUINDI?
Dalla fine della seconda intifada, con la costruzione del Muro, e la conseguente fine degli attentati suicidi, c’è un fatto inesorabile: Israele ha dimostrato fra il poco e il pochissimo interesse a trattare per la creazione di uno Stato palestinese. La spinta che c’era negli anni della speranza, il decennio che va dal 1992 al 2001, è svanito quasi completamente. Gli israeliani hanno deciso di “fare da soli”, e i governi che sono stati eletti sono la testimonianza di questo orientamento. Netanyahu ha più volte detto che il suo obiettivo è garantire prosperità economica ai palestinesi, sperando che questo faccia loro dimenticare le rivendicazioni territoriali. In questa ottica, interventi militari come questi possono essere soltanto da scongiurare: gli israeliani misurano il proprio insuccesso in interventi come questi nel numero dei proprî morti molto più di quanto non faccia Hamas, che ha sempre dimostrato una maggiore disinvoltura riguardo alla vita della propria gente (provate a immaginare, per un momento, lo scenario opposto: quanto sarebbe ridicolo e inefficace per gli israeliani usare dei civili come scudi umani per difendere i proprî soldati od obiettivi militari?). Vale anche per i civili: ogni morto israeliano è un successo per Hamas, ogni morto Palestinese è un insuccesso per Israele. Inoltre, gli interventi militari attirano l’attenzione del mondo, che vuole trovare una soluzione alla questione palestinese, quella che Netanyahu vorrebbe far scivolare via. Israele ha – per un misto di buone e cattive ragioni – una sindrome d’accerchiamento che la porta a non fidarsi di nessuno a livello internazionale, ma sa che senza l’appoggio americano, la situazione attuale non sarebbe sostenibile. In queste settimane, l’Amministrazione Obama non è stata per nulla tenera con Israele, ed per questo che Netanyahu ha cercato di scavalcare il Presidente, e rivolgersi al Congresso, storicamente meno propenso alle imposizioni nei confronti di Israele. Il problema è che questa è una strategia vincente.

Hamas è consapevole di una cosa: che, a Gaza, non c’è un’alternativa alla sua leadership. Gli israeliani non vogliono tornare in quel ginepraio, ma neanche Fatah può realmente permettersi di amministrare la Striscia: sarebbe un impegno con molti oneri e pochi onori. Neppure Hamas riesce a controllare le cellule più estremiste, sarebbe tanto meno in grado di farlo Fatah, come del resto non c’è riuscita negli anni in cui ha governato a Gaza: difficilmente vorrebbe spendere così la propria credibilità acquisita. Come detto, però, le minori preoccupazioni di Hamas rispetto alla credibilità internazionale, sono però assieme una forza e una debolezza, e l’atteggiamento del Movimento Islamico di Resistenza è segnato dalla stessa ambiguità nei riguardi delle prospettive future. Sulla carta, Hamas è orientata alla sola distruzione d’Israele. È ciò che dice la costituzione e la propaganda, ciò che si sente nei comizî e nelle tv, ciò che insegna ai bambini nelle proprie scuole. In altri contesti, però, le cose diventano meno definite: alcune volte si parla di accettazione dei territorî del 67, altre di una tregua di dieci/venti anni con Israele (ma senza mai spingersi a riconoscerne l’esistenza). Anche durante questo conflitto si è passati dal dire che tutti gli Israeliani sono obiettivi di Hamas, all’affermazione che Hamas colpisce i civili solo per la rudimentalità delle proprie armi. Ed è nella stessa direzione che va letto l’invito all’ANP di continuare a spingere per un’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele (la notizia è significativa perché, come la leadership palestinese sa, il mirare indiscriminato ai civili è – di per sé – un crimine di guerra che potrebbe incriminare Hamas stessa e complicare la posizione palestinese).

Dal canto proprio, Fatah ha rinunciato alla violenza e – negli ultimi anni – ha dimostrato significativi segni di apertura  Questa scelta di giocare la carta della diplomazia ha però il problema di essere un’arma spuntata, specie perché l’unico modo che Fatah ha di costringere Israele al tavolo delle trattative è attraverso le pressioni della comunità internazionale, che però si allerta seriamente soltanto durante gli interventi militari, rendendo di fatto Fatah ostaggio delle azioni di Hamas. Inoltre, questa necessità comporta una tensione da due fronti: da una parte Fatah deve pubblicizzare la propria disposizione alle concessioni, anche dolorose, in modo da essere credibile; ma dall’altra, pubblicizzare cosa si è disposti a concedere non è soltanto una pessima strategia di trattativa ma costituisce un serissimo problema per l’opinione pubblica, visto che la larga parte della popolazione palestinese vede queste rinunce come un tradimento (mentre è, genericamente, favorevole ai due popoli due stati, quando si parla delle specifiche rinunce necessarie alla pace, le cose cambiano), una percezione che Hamas è prontissima a sfruttare. Per questo Fatah si rende conto della propria posizione di debolezza ed è disposta a concessioni notevoli (arrivando a rinunciare privatamente alla questione che sembrava la più irrisolvibile, il rientro degli eredi dei profughi) ma senza poterle rendere pubbliche. In poche parole, Fatah è prigioniera della storica dinamica fra israeliani e palestinesi in cui dominano le prove di forza e si è interessati alla pace solo se si è vulnerabili.

In sostanza ci sono molte ragioni per pensare che le cose rimarranno come sono. L’unica speranza che qualcosa cambi risiede in un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale, e in particolare degli Stati Uniti, perché costringano Israele a trattare con Fatah (e ad accettare concessioni, come la divisione di Gerusalemme, e lo smantellamento della maggior parte delle colonie). Il paradosso è che, in molti, vedono già troppa attenzione da parte del mondo nei confronti di Israele. È vero che la sproporzione di attenzione che la condotta israeliana riceve rispetto a quella di molti altri Stati che compiono crimini ben più efferati è equivoca e sospetta, ma l’errore è l’ignorare i comportamenti degli altri Stati, non l’essere troppo attenti a quelli di Israele.

Questo era l’ultimo capitolo di questo piccolo compendio: diversamente dalle altre puntate, ho pensato che fosse utile aggiungere alcune mie interpretazione ai fatti che ho riportato, per tentare di chiarire meglio come si inscrivono nel quadro generale. Queste interpretazioni sono, ovviamente, mie opinioni. Grazie a chi mi ha letto.

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.