Il designer e la rivolta

Con la rivolta dei primi di agosto a Londra ormai alle spalle e quasi dimenticata, può essere il momento adatto per qualche scampolo di riflessione. Sappiamo quali sono state le cause scatenanti contingenti (l’uccisione ingiustificata di un giovane ricercato da parte della polizia), meno chiaro il contesto nel quale si è sviluppata una delle più violente rivolte urbane degli ultimi anni in una metropoli europea.

Si sono sprecate fin da subito analisi alla ricerca delle responsabilità dietro l’insurrezione londinese individuandole, di volta in volta, nei tagli comunali ai centri giovani per la crisi economica, nel sistema educativo e, ancora, nelle famiglie formate da ragazze madri, problema sociale particolarmente esteso in Gran Bretagna. C’è un tratto comune che unisce tutte queste, più o meno condivisibili, interpretazioni. In tutte, cioè, si evita accuratamente di interrogarsi su ciò che può essere stata la propria parte di responsabilità in ciò che è accaduto.

Ci prova, mettendo in discussione il proprio ruolo, Adrian Shaughnessy, grafico e pubblicista inglese, che sulle pagine di Design Observer affronta il tema della responsabilità oggettiva dell’intera categoria professionale dei designer. Apriti cielo! Non c’è stato molto da aspettare, naturalmente, prima che un coro di proteste si sollevasse quasi unanimamente da parte dei professionisti risentiti per la chiamata in correo.

I partecipanti alla rivolta — sono le considerazioni di Shaughnessy — per la maggior parte sono giovanissimi appartenenti delle fasce più povere della popolazione, ma secondo un concetto di povertà che trascende quell’accezione tradizionale cui siamo abituati. Forniti di Blackberry per meglio coordinarsi, i manifestanti hanno saccheggiato catene di grandi marche e negozi di generi consumistici. Se le proteste avevano come origine ingiustizie sociali e economiche, questo elemento scatenante trova la sua rappresentazione più che altro nell’impossibilità di poter accedere ai beni di consumo che costituiscono buona parte dell’immaginario pubblicitario del nostro style-of-life. Fasce sociali che, “nello specifico, sono escluse da quel mondo di desiderio e consumismo creato dai titolari di brand, dalle agenzie pubblicitarie, dagli art director, dai grafici, dai fotografi, dai designer di prodotto, dai retail designer, dagli architetti, dagli stilisti, dai ritoccatori e dai copywriter”.

Se è vero che la maggior parte dell’attività dei designer è oggi finalizzata a creare oggetti di desiderio è anche vero che non sono molti quelli disposti a sentirsi chiamati in causa come corresponsabili dell’ineguaglianze sociali che ne costituiscono il corollario.

“Dare la responsabilità dei saccheggi ai prodotti di design è come incolpare la vittima di uno stupro perché si era vestita provocantemente”; “la professione del designer è quella di rispondere alle richieste della committenza e farlo bene, rendere più attraente un prodotto cioè, non può essere considerata una colpa” sono solo due delle tante, e talvolta astiose, obiezioni mosse all’autore dell’articolo.

Non è la prima volta che l’attività più commerciale del designer, visto come un volenteroso collaborazionista dell’orgia consumistica, viene stigmatizzata, basti solo ricordare le dichiarazioni d’intenti First Things First del 1964 e la sua più recente riedizione del 2000. Manifesti che chiamavano i designer — invero con affermazioni abbastanza generiche e, possiamo dire oggi, infruttuosamente — ad una maggiore attenzione verso il valore sociale della comunicazione e del progetto.

Il linguaggio seduttivo, quello pubblicitario, è vincente su tutti i fronti e certamente non saranno considerazioni moralisteggianti o ideologiche a cambiare la situazione. Tuttavia di fronte a una crisi che minaccia di durare molto più a lungo di quanto non ci si aspetti e con un crescente numero di cittadini messi alla porta del dorato mondo dei mulini bianchi, non sarebbe del tutto ozioso interrogarsi sulle modalità che hanno i designer per contribuire a un modello di vita che non sia esclusivamente legato al consumo di merci effimere.
Che fare? Il dibattito è aperto.

Foto da http://krishnaprasad.info/2011/08/12/riots-spread-in-britain/

Gianni Sinni

Grafico, si occupa di comunicazione responsabile