Il ritorno della casta dei poverini?

Il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di Walter Lapini, stimato professore di Letteratura greca dell’Università di Genova, che rilancia la ritornante polemica contro i finanziamenti europei alla ricerca, in particolare gli ERC Grants (ma anche le borse Marie Curie); e lo fa con toni oggettivamente sprezzanti.

Che cosa sono gli ERC Grant e a che cosa mirano? Lo spiega l’UE stessa: “In questo periodo l’Europa non offre ai giovani ricercatori sufficienti opportunità di sviluppare carriere indipendenti né di passare da un’attività svolta sotto il controllo di un supervisore a un attività di ricerca indipendente svolta sotto la propria responsabilità. Questo problema strutturale provoca un grave spreco di talenti della ricerca in Europa. Inoltre ostacola o ritarda l’affermarsi di una nuova generazione di ricercatori eminenti, che apportano nuove idee ed energia, e incoraggia i ricercatori dotati di grande talento all’inizio della loro carriera a cercare di farsi strada altrove”.

Questi finanziamenti sono molto corposi, da un milione e mezzo a due milioni e mezzo di euro (e oltre), sono attribuiti a un singolo ricercatore, che può essere già professore, oppure può essere senza posto fisso (cioè, nel linguaggio di Lapini, un “cane sciolto”). I fondi servono sostanzialmente al vincitore per costruire un gruppo di ricerca per la durata di cinque anni, sulla base del progetto presentato al concorso, da basare in un’università o centro di ricerca europeo. La selezione è molto dura, con un tasso di riuscita del 10% circa.

Sembra tutto molto ragionevole. La posizione di Lapini è invece molto critica, come è del tutto lecito che sia. In particolare è critica perché ai vincitori di Erc, che peraltro in Italia sono pochissimi, in area umanistica all’ultima tornata solo uno, è possibile (non obbligatorio) offrire un posto da professore associato o da professore ordinario (secondo una tabella di conversione decisa dal ministero).

In sostanza, si ritiene che il concorso superato in Europa (perché di fatto si tratta di un concorso, con varie tappe di selezione) possa essere considerato valido anche in Italia e quindi che un dipartimento interessato possa acquisire un nuovo professore vincitore di Erc, non importa da dove provenga.

Questa critica è assolutamente lecita. Del resto non tutti i paesi europei danno questa possibilità. E, più in generale, la stessa UE potrebbe investire quei soldi per la ricerca in mille altri modi, con sistemi diversi.

Io invece credo che questa possibilità – dell’assunzione – sia stata uno strumento utilissimo per attirare in Italia ricercatori che altrimenti sarebbero andati altrove e per arricchire la ricerca di base, perché questi finanziamenti, non dimentichiamolo, sono per ricerche assolutamente libere, dal basso verso l’alto, nel senso che i progetti non vengono finanziati sulla base di linee stabilite centralmente, ma i ricercatori propongono il loro personale progetto. Chi ha vinto ha poi potuto finanziare, a costo zero per le università, postdottorati, dottorati, ricercatori a tempo determinato.

Del resto, hanno fatto così male i nuovi professori assunti grazie all’Erc? Non mi pare. Hanno seguito ricerche strampalate e mal fatte? Non sembra. Hanno assunto postdoc, dottorati e ricercatori ignoranti e improbabili? Non direi.

Sono tutti Einstein? No. C’è qualche cretino? Probabilmente sì. Qualche progetto perfetto e importante non ha vinto? Ci scommetto. Ma l’approccio dell’operazione non è pur nulla negativo – a meno che non si pensi che dare quattro spiccioli a pioggia sarebbe meglio, opinione lecita anche questa. Se l’obiettivo dell’UE è quello indicato in apertura di questo articolo, non si può che ammettere che sia un modello funzionante.

C’è però nell’articolo di Lapini molto altro, che mi sembra rappresentativo di alcuni mal di pancia di accademici, espressi in modo paradigmatico.

Si parla per esempio di “ritornante darwinismo” per definire quel dispositivo di finanziamento. E l’argomento del darwinismo, un po’ stucchevole perché mai spiegato bene, salta fuori spesso quando si parla di competizione per una posizione o per dei finanziamenti competitivi (compresi quelli italiani).

Mi chiedo però: se vogliamo essere (anti)darwinisti non è stata persistente e invincibile darwinismo (e lo è ancora in buona parte) la pratica dei concorsi in Italia negli ultimi decenni? Quando vince sistematicamente il candidato interno, a tutti i livelli (anche a quelli inizialissimi, che determinano una serie di conseguenze nel creare file e aspettative), che cosa si sta dicendo se non che per vincere bisogna essere fedeli, pazienti, soprattutto non disturbare chi può farti vincere un concorso?

E che cos’è questo se non darwinismo, cioè selezione del più adatto a un ambiente che si vuole e si vive come ambiente di conservazione e di fedeltà, di paziente assunzione delle gerarchie costituite, e che esclude sistematicamente chi non ha queste caratteristiche e viene allontanato come “cane sciolto”? Sono sicuro che su questo Lapini la pensa come me, perché si è espresso varie volte in questo senso. Abbandonerei quindi la categoria del darwinismo, che è cattiva retorica.

Che ci siano azioni dell’UE che tengono conto degli impacci – oltre che del sottofinanziamento, ma le cose andavano così anche quando questo sottofinanziamento non c’era – che un ricercatore può subire nello sviluppo della propria indipendenza professionale a me tranquillizza molto e mi pare una delle cose migliori che siano state fatte (la migliore in assoluto è invece questa, che va nella stessa direzione e che è altrettanto criticata). Sono opinioni, che ho spiegato varie volte come ho potuto, e sulle quali amerei confrontarmi con chiunque.

Quello che trovo inaccettabile e insultante è invece definire il ricercatore vincitore di Erc come un “giovanotto intraprendente e opportunamente addestrato che ha saputo esprimere in brillante curriculese una serie di buoni propositi e di parole in voga…”, che “piomba in un dipartimento e scardina la programmazione, salta la fila, taglia la strada ai tanti che attendevano laboriosamente il loro turno e che ora devono farsi da parte davanti all’inesorabile avanzata del Milione”. La trovo una formulazione offensiva per il ricercatore che arriva (e per tutti quelli che provano questo tipo di concorso) e ingiusta per chi sta nei dipartimenti.

Ho partecipato tre volte al concorso Erc, non ho mai vinto, due volte sono arrivato alla short list a Bruxelles – se mi è concessa l’espressione inglese -, mentre sono stato borsista Marie Curie e supervisore di borsisti Marie Curie, e devo dire che ho imparato moltissimo anche solo nello scrivere i progetti, pur non vincendo, nel mettere a fuoco la direzione delle mie ricerche, nel depurare i progetti da elementi che non riuscivo a spiegare, perché erano forse insinceri e inadatti, e nel capire meglio certe traiettorie che la scrittura complessissima di quel tipo di progetto richiede, nel leggere i referaggi finali (molto complessi, con 6-10 diversi referee).

Consiglio a tutti i ricercatori seri di partecipare – e da direttore di Dipartimento ho incoraggiato molto i colleghi a misurarsi con quella procedura, non solo i giovani – non perché uno speri nel jackpot, ma perché il risultato sarà comunque un rafforzamento del proprio punto di vista sulla propria ricerca (e c’è solo un Paese, a mia conoscenza, che dà strutturalmente la possibilità di ragionare davvero sulla propria ricerca, cosa utilissima, cioè la Francia con il suo processo di Habilitation à diriger des recherches, sul quale pure sarebbe bello ragionare).

Ritengo invece stupefacente che si possa pensare che in un Dipartimento di docenti-ricercatori ci si debba mettere in fila, aspettando il proprio turno, senza disturbare i manovratori, cioè i professori ordinari che decidono tutto per tutti, che stabiliscono chi va avanti e chi diventa cane sciolto, che danno la patente di meritevole al poverino di turno e lo stigma di giovanotto addestrato a chi magari ha solo voglia di fare le cose secondo la propria testa. E questa non è questione di ricerca, neppure di didattica o di funzionamento dell’istituzione, ma è semplicemente una questione di potere.

Non si capisce peraltro in che modo chi sta in fila abbia un diritto a qualcosa, chi glielo attribuirebbe in barba a regole e leggi, in che modo una persona che ha vinto un concorso europeo e ha soldi per far lavorare altre persone tagli la strada a qualcuno, tolga qualcosa a qualcun altro, quando è vero il contrario, contribuisce alla ricerca di base e all’arricchimento dell’ambiente della ricerca.

Qualche anno fa, quando ero un cane sciolto, scrissi proprio qui che era ora di smetterla con i poverini in fila e con la casta dei poverini. Da allora l’università italiana è migliorata, la sua cultura è cambiata e sta cambiando.

Sarebbe il caso che un grande dibattito nazionale, sincero, aperto, sui temi veri e non sulle categorie da salotto accademico, sulla funzione e sul destino della nostra università e sull’università europea, venisse aperto. Ormai da troppo tempo questo non avviene e si è persa la fiducia reciproca, fiducia nel Ministero (troppe volte sleale), nell’Europa (spesso incompresa), nei rettori, nei Dipartimenti, nei colleghi, nella sincerità delle opinioni. Sono convinto che attorno a un tavolo saremmo tutti più in accordo di quanto malintesi e mal di pancia non facciano sembrare.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.