Riforme istituzionali: ricominciare da capo

So che non è più il momento di parlare di riforme istituzionali. Adesso si scatenerà il dibattito sulla legge elettorale (come è giusto, visto che pare che non ci sia una legge per andare a votare).

Tuttavia pensare che una legge elettorale, qualsiasi essa sia, possa da sola risolvere i problemi di governabilità del nostro paese è solo una favola che ci tranquillizza. Basterebbe ricordarsi di quante maggioranze stravittoriose si sono sgretolate nel giro di poco tempo (e pur lasciando da parte il problema tragico delle due camere con maggioranze diverse).

Neppure il Berlusconi fiammeggiante degli anni 2000 con le sue maggioranze schiaccianti è riuscito a rimanere in sella, neppure il pentapartito d’acciaio e inamovibile di quella che penosamente chiamiamo “prima repubblica” (come se davvero ce ne fosse tecnicamente una seconda o una terza, altra favola) è mai riuscito a garantire lo stesso governo per più di pochi anni o mesi.

E quante volte abbiamo sentito, e forse ripetuto, la favola che la colpa dell’instabilità dei governi è degli italiani e dei loro politici, e in particolare della nostra mancanza di morale pubblica, del fondo limaccioso e corrotto della nostra coscienza collettiva.

Sarà vero? Può darsi. Ma se in 70 anni abbiamo avuto 62 governi allora dobbiamo attribuire questa mancanza di morale anche alla generazione dei partigiani, alla generazione di quelli che hanno consolidato il paese nei vent’anni dopo la guerra, alla generazione del boom economico, alla generazione degli Spadolini (a proposito di governi fotocopia) e dei Pertini, alle generazioni di chi ha fatto crescere l’economia italiana e le ha dato proiezione mondiale.

Io non credo all’inferiorità morale degli italiani. Credo che sia giunto il momento di ripensare i rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo (la riforma di Renzi non toccava minimamente questo punto) e che non sarebbe una bestemmia dare agli italiani la possibilità di eleggere il proprio governo – in una forma o in un’altra -, come succede in tanti paesi democratici.

La paura che il popolo italiano non sappia scegliere il proprio governo – e in virtù della sua presunta coscienza morale pubblica diminuita – poteva forse appartenere all’epoca di uscita dal fascismo, ma oggi serve solo a garantire le caste politiche. E i riti della salita al Quirinale, delle consultazioni, della porta chiusa che si apre, tutti gesti ai quali siamo grati e affezionati, simboleggiano però anche quel non toccare palla dei cittadini nella decisione di chi li deve governare.

Ma – si dice da decenni – se il popolo votasse il governo, diciamo per ipotesi il presidente, vincerebbe Berlusconi, dimenticando che Berlusconi è stato a galla per quindici anni proprio grazie al nostro sistema; vincerebbe Grillo, si dice, ma Grillo vincerà comunque e senza responsabilità (noto anche che Le Pen, che ha più voti di Grillo, in un sistema come il nostro sarebbe già al governo e in quello francese ha scarse possibilità di diventare presidente); vincerebbe Renzi, dicono altri, ma Renzi senza nemmeno essere stato eletto ha presieduto il quarto più lungo governo di questa repubblica. E poi, soprattutto, governi colui che gli italiani vogliono che governi. Con un sistema di contrappesi, ovvio, con un sistema di garanzie democratiche, naturalmente, ma con la piena responsabilità davanti al popolo italiano e del popolo italiano.

Adesso tutti parleranno della legge elettorale e delle sue favole, che daranno altri tre governi nella prossima legislatura, mentre il paese imbocca un piano inclinato di inanità, ma il problema della governabilità non sarà risolto ed è un problema connaturato alla nostra costituzione.

C’è un paese che si è reso conto di tutto questo – anche grazie agli sforzi del governo uscente – che vuole cambiare, che vuole essere orientato (sì, orientato come diceva Moro, e non pedissequamente seguito, come diceva Andreotti). Se quella parte di paese è minoritaria – e secondo me non lo è -, allora questa è una battaglia politica che vale la pena di fare, con proposte convincenti, chiare, nette, spiegando i problemi veri, senza dire bugie, neppure a fin di bene. Non è una battaglia univoca, non è di pertinenza di una sola parte politica, anche perché le soluzioni sono molteplici.

Fra poco ci saranno le elezioni. Spero che i partiti e le forze politiche non temano di presentare progetti di riforme costituzionali su questo punto cruciale e non abbiano paura di sedersi attorno a un tavolo, anche se il clima è di totale sfiducia e slealtà, per trovare una soluzione, tra le tantissime possibili.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.