La lotta impari del reclutamento accademico

Ho più volte detto che l’abilitazione scientifica nazionale – che pure ha mostrato alcuni problemi – potrebbe rappresentare un progresso nel sistema di reclutamento universitario, che negli scorsi decenni ha manifestato tutta la sua inefficienza (con pochissime concrete proposte di miglioramento da parte dell’università stessa). L’abilitazione è a partire da queste settimane il titolo necessario per partecipare ai concorsi per posti da professore associato e professore ordinario. Non dà accesso al posto, come è giusto che sia, ma garantisce, o dovrebbe garantire, il livello scientifico adeguato dei candidati a una determinata posizione accademica.

Il meccanismo della procedura è stato da subito molto criticato, a volte in maniera ideologica, come se il lavoro scientifico non potesse essere giudicato, altre volte è stato contestato il fatto che il ministero abbia posto dei criteri quantitativi e di produttività minimi (un certo numero di articoli, di libri, etc.) per poter partecipare alla procedura, pur affidando a commissioni di professori ordinari il compito di entrare nel merito della qualità del lavoro e anche di derogare in modo motivato dai criteri quantitativi, e ora, a risultati pubblici, viene molto criticato proprio il lavoro qualitativo delle commissioni di ordinari (qui qualche mia prima considerazione).

Ora quindi i soli abilitati possono partecipare ai concorsi, che verranno banditi dalle singole università e dipartimenti. Ci sono però nella fase di reclutamento alcuni punti fortemente critici. Anche quando le università decideranno di mettere a concorso i posti da associato o ordinario (e non di chiamarli direttamente, come possono fare), gli studiosi abilitati che però non hanno già un posto in quell’università saranno fortissimamente svantaggiati rispetto agli abilitati che già hanno un posto.

Il meccanismo è molto semplice: se un professore associato costa 10 e un ricercatore confermato costa 6, allora in un concorso per un posto da professore associato all’università converrà sempre prendere un ricercatore che è già assunto piuttosto che uno studioso esterno, perché il ricercatore già assunto costerà in realtà 4, cioè la differenza tra quello che già costa come ricercatore e quello che costerà come associato. Invece un esterno costerà 10. In sostanza, con gli stessi soldi che l’università spenderebbe per prendere un esterno, può avere 2 o 3 posizioni nuove di già assunti, cioè può finanziare 2 o 3 avanzamenti di carriera interna.

Quale sarà il risultato? L’abilitazione scientifica nazionale (accoppiata al reclutamento locale com’è ora) avrà prodotto un gigantesco avanzamento di carriera ed escluderà definitivamente alcune migliaia di studiosi che potrebbero invece essere una linfa nuova per l’università (insieme agli altri), perché si tratta spesso di 35-45enni che, pur non beneficiando della tranquillità e dei mezzi di un posto fisso in un’istituzione, hanno mantenuto un’altissima produttività e qualità di ricerca e sono nella piena maturità scientifica, e si sono finanziati di solito con contratti prestigiosi e importanti all’estero (almeno per una parte della loro vita), dove sono stati anche in contatto con ambienti innovativi di ricerca e con anche pratiche di ricerca fondi, o hanno comunque trovato il modo in Italia di mantenere alto il loro standard di ricerca.

Quanto è ampia questa classe di abilitati? Ci piacerebbe che il ministero fornisse i numeri, appena possibile, e ci ragionasse pubblicamente. Un’associazione di precari della ricerca, (Apri) nel cui blog mi sono imbattuto, sta nel frattempo cercando di raccogliere dei dati in merito.

Una cosa mi sembra chiara. Se il ministero non escogita qualche meccanismo che rimetta in parità di condizioni questi studiosi con quelli già presenti nelle strutture universitarie, uno degli effetti ricercati dalle nuove procedure di abilitazione, cioè un miglioramento del livello degli studiosi in entrata, l’internazionalizzazione, il merito e tutto il resto (e pur tralasciando un certo senso di equità), verrebbe fortissimamente depotenziato.

Non si tratta di fare sanatorie, guerre tra poveri, linee dedicate, ma di rendere meno sconveniente l’assunzione di uno studioso esterno, per esempio con incentivi ministeriali che avvicinino gli oneri dell’università per un esterno a quelli per un interno, magari per un periodo iniziale di un numero anni, oppure alzare la quota obbligatoria di assunzioni di esterni magari al 40% (oggi è al 20%, ma alcuni dipartimenti si stanno preparando a colmarla con chiamate dirette da altre università, per non avere sorprese di assunti non graditi e per coprire il restante 80% senza problemi di competizione esterna), oppure togliendo semplicemente la percentuale di esterni, ma appunto facendosi carico di una quota molto alta degli oneri di ogni esterno assunto, in modo da poter davvero aiutare le università a prendere i migliori, interni o esterni che siano.

Insomma quest’abilitazione, cruciale sotto moltissimi aspetti per tutto il nostro sistema scientifico-accademico, e anche civile, senza un nuovo intervento del ministro rischia di dare due effetti distorsivi fortissimi e paradossali: escludere per sempre dal sistema una fascia qualificatissima di ricercatori senza posto e produrre un semplice ed epocale avanzamento di carriera per quelli che il posto ce l’hanno già.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.