I longevi

Nei giornali di oggi si dà conto del rapporto del FMI sull’impatto della longevità nei sistemi del welfare. Da non specialista, e da una prospettiva completamente diversa, ho accennato al tema nel libro 150 più 1. L’Italia alla prova di se stessa. Riporto di seguito il paragrafo sui Longevi del capitolo “L’uomo col fucile e l’uomo con la pistola”.

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L’immaginario del mondo antico, fino almeno al Rinascimento e oltre, fino al XVII secolo, era popolato di creature le più diverse, non solo semidei e spiriti, ma anche elfi, fate, streghe. Tra questi esseri dallo statuto incerto, c’erano anche i longaevi, forse angeli, forse defunti, forse incrocio tra vari elementi.

Ne ha studiate alcune caratteristiche C. S. Lewis, che non è stato soltanto l’autore delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, ma come il suo amico e collega di Oxford J. R. Tolkien (l’autore del Signore degli anelli), era un filologo, specialista di letteratura medievale e rinascimentale.

L’idea della longevità ha affascinato le epoche e le culture. Per Plinio esistono popolazioni, da qualche parte, la cui vita media arriva ai duecento anni. Del resto è pensiero diffuso per secoli che la vita media e la statura nel passare delle ere si abbassino.

Il mondo invecchia, hanno pensato i naturalisti e i filosofi per secoli, e noi con esso, perdiamo vigore e forza. I primi uomini erano giganti e longevi.

Del resto agli occhi degli antichi lo testimoniavano i ritrovamenti casuali di ossa di giganti, mandibole, crani, molari giganteschi, che forse erano resti di dinosauri o degli elefanti nani che in epoche precedenti popolavano alcune zone del Mediterraneo (e lo stesso Polifemo, con quell’unico occhio, poteva piuttosto essere stato suggerito da un cranio da elefante, che ha una grossa rientranza centrale, appunto come di un occhio). D’altra parte anche la Bibbia da un certo momento ha cominciato a parlar chiaro alla cultura occidentale: i patriarchi vivevano centinaia di anni, Matusalemme per esempio 969.

È curiosa questa inversione di logica rispetto a noi, questo sentirsi sempre nani sulle spalle di giganti, per cui le generazioni precedenti sono migliori, più grandi e più vive. Tutto è cambiato da quel modello, ma non il sogno di vivere di più e meglio.

La vita media si è allungata moltissimo, pure la statura; ai nostri progenitori appariremmo come giganti longevi, anche se certo non proprio dei patriarchi. Mundum juvenescit? Il mondo comincia a ringiovanire? Pare di sì, ma non senza problemi da affrontare.

La medicina promette generazioni di longevi, forse i primi longevi sono già nati, quelli che supereranno la media di 100 anni (c’è chi dice 120). Ancora nel 1985, il film Cocoon, di Ron Howard, associava la longevità a un evento fuori dal comune, impossibile per natura (l’immersione nell’“energia dell’universo”), mentre oggi lo sfondamento del secolo medio di vita sembra così a portata di mano da essere quasi sulla soglia del linguaggio politico.

In ogni caso, soprattutto in Italia, il paese più longevo d’Europa e alle primissime posizioni nel mondo, l’aumento dell’età media sta cambiando usi e abitudini. Tuttavia, anche qui, non sembra che il tema sia ancora diventato strategico nel pensare la società futura. Da un lato perché la senescenza della popolazione italiana è mitigata dalla giovinezza degli immigrati stranieri, dall’altro perché effettivamente un discorso complessivo su una società in cui la vita media si alza ha ancora dei contorni non del tutto definiti.

Se ormai si parla già di quarta età, dai 75 ai 90 anni, e la medicina promette uno sfondamento dei 100 anni in tempi relativamente brevi, il problema non è allora solo quello di far quadrare i conti delle pensioni, ma di ripensare il ruolo delle età, di tutte le età, in una società di longevi. L’innalzamento del limite biologico ha delle conseguenze sia sul piano economico, che su quello relazionale e direi cognitivo, e un impatto anche sulla definizione delle altre età.

Sul piano economico è già oggi evidente come si aprano mercati nuovi, per la terza e la quarta età, sia sul piano della cura, dell’assistenza, ma anche delle attività ludiche e del tempo libero. Ma forse è tutta la struttura delle relazioni individuali e intergenerazionali che andrà ripensata. Già oggi a proposito dell’Italia (e in Europa solo dell’Italia) si parla di gerontocrazia. Basti solo ricordare che il presidente della nostra repubblica è un uomo “di quarta età” e gli ultimi due presidenti del consiglio, prima di Monti, sono stati eletti sopra i 70 anni.

Questo certo è da un lato un segno positivo, perché è indice di un limite biologico-cognitivo che viene superato e contribuisce a una visione dell’anzianità positiva e produttiva. Dall’altro lato costringe le generazioni più giovani a ridefinire le proprie ambizioni e le proprie possibilità di accesso a posizioni di responsabilità e prestigio sociale. Oppure con il tempo tutto ciò condurrà a riorganizzare valori e organizzazione sociale.

Già oggi in Italia si dà uno spropositato valore simbolico (e retributivo) all’“esperienza”, come sottolinea spesso uno dei più brillanti giovani economisti italiani, Filippo Taddei. La curva delle retribuzioni segue generalmente la curva dell’invecchiamento, mentre sembra disinteressarsi della curva della produttività, che imporrebbe invece una forte retribuzione negli anni centrali dell’attività lavorativa e una progressiva diminuzione negli anni successivi. Dal modo attuale di vedere l’esperienza consegue anche, sul piano culturale, una sorta di assunzione acritica dell’attesa, dell’aspettare il proprio turno, dello svincolare il proprio lavoro dal risultato, a favore del fattore “tempo”. Dunque un fattore culturale e organizzativo insieme.

Ma pensiamo a come si modificherà l’idea stessa di lavoro, a quante attività, volontaristiche o meno, potrebbero essere trasferite ai longevi, con l’inevitabile conseguente mutamento del sistema del welfare e dell’assistenza mutua tra le generazioni. Chissà se un giorno la pensione potrà essere integrata da servizi prestati alla comunità dai longevi attivi. Però possiamo immaginare anche l’apparente contraddizione tra la velocità dei cambiamenti tecnologici, con i mutamenti relazionali e antropologici che portano con sé, e la lunghezza di vita di un centenario che passa attraverso tutti questi cambiamenti.

Che conseguenze può avere tutto questo? Oggi è già molto curioso che né l’ex presidente del consiglio Berlusconi né il leader del più grande partito che gli si è opposto, Bersani, sappiano di fatto a cosa serve Google, ma a parte questo come si fa a passare attraverso le rivoluzioni tecnologiche di tutto un secolo? “L’arte è lunga, la vita è breve” diceva un aforisma di Ippocrate che ha attraversato i secoli, ad indicare l’impossibilità per una singola esistenza di abbracciare la conoscenza e lo studio di una disciplina.

Ma se un giorno fosse vero il contrario? Se la vita fosse tanto lunga da attraversare la brevità di innovazioni e rivoluzioni? Come tutto ciò riorganizza e filtra la composizione sociale? Insomma quello che dovremmo affrontare non è “una società di vecchi”, come si dice spesso, ma una società con una o due età in più, cioè una società di longevi, che dovrà necessariamente esprimere un’umanità più ricca, ma con un livello di complessità molto maggiore, con ruoli differenti e con un’idea di lavoro, di conoscenza, di relazioni molte diverse. Come sempre, cominciare a immaginare quella società ci aiuterebbe a raccontare e cambiare un po’ già la nostra.

L’introduzione di 150 più 1. L’Italia alla prova di se stessa

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.