È ora che l’Expo cominci a parlare

I Longobardi misuravano l’ampiezza di boschi e foreste sul numero di cinghiali che ci si potevano sfamare. La carne era l’alimento base di tutti i popoli germanici, la foresta era l’ambiente che spontaneamente la forniva. La linea di frontiera tra i loro territori e quelli romano-bizantini in Italia era anche un divide alimentare e paesaggistico, perché i Bizantini gestivano l’ambiente avendo più in mente la coltivazione, secondo tecniche di derivazione romana che erano riusciti a preservare. Del resto ancora oggi il pane, il vino e l’olio sono i simboli sacri di una religione, il cristianesimo, che marca così la sua impronta mediterranea. Agli dèi celtici e germanici la birra e la carne.

Anche i nobili medievali mangiavano carne. Non tanto per le proteine, ma per segnare la loro identità guerriera, predatoria. Privarli della carne sarebbe stato umiliarli nel loro essere più profondo. Non a caso gli eremiti, costruttori di identità alternative, mangiavano vegetali e verdure, spesso crude. Lo raccontano tanti testi. E Adamo ed Eva nel paradiso terrestre non erano in fondo vegetariani?

Reti di simboli e di identità, frontiere alimentari che dividono, ma che contaminano e portano a sistemi più ampi, la storia del cibo racconta tutto. Ricordo una scena de La dolce vita in cui Emma dice fastidiosamente «Mangia, mangia» a Marcello, obbligandolo a trangugiare una banana mentre lui è al volante, imboccandolo come una mamma, come la madre mediterranea così legata all’idea della cura come nutrimento. Poco dopo Marcello urlerà «Non ne posso più del tuo amore aggressivo, vischioso, materno», alla ricerca di un modello differente di relazioni tra uomo e donna che quella cura del cibo rappresentava.

Non c’è nulla di più politico, nel senso più pieno, del cibo e dell’alimentazione. Innanzitutto per l’impatto enorme che il nostro cibo ha nella gestione stessa del pianeta. Nel nostro piatto ci sono tutti gli angoli della terra e tutte le stagioni insieme. Il che presuppone industrie e filiere complessissime, i cui tentacoli sfuggono alla nostra consapevolezza individuale. Alcuni alimenti perfettamente legali arricchiscono mafie particolari in posti lontani, altri devastano territori (altri ancora li salvano), alcuni implicano un surplus di Co2, altri impongono sofferenze agli animali e squilibri nell’organizzazione dei territori (pensiamo al miliardo di bovini e alle risorse che assorbono) e tutti producono conseguenze stringenti, positive o negative, sul lavoro degli uomini.

Feeding the planet, nutrire il pianeta, recita il tema dell’Expo italiana del 2015. E sono d’accordo con Riccardo Luna, è necessario che il tema e l’Expo stessa assumano un senso forte. Certo il traguardo che propone Luna per l’Expo, mobilitare il mondo per mettere fine alla fame nel pianeta, solleva degli interrogativi sulla proporzione stessa della proposta rispetto all’evento. Sono d’accordo però sul fatto che sia arrivato il momento che l’Expo cominci a parlare del tema che si è dato, per la ricchezza del problema e per la sua politicità, cioè per la necessità che il cibo e l’alimentazione si costituiscano come discorsi pubblici e strategici.

Economie e valori simbolici, il cibo è anche oggi sensibilmente politico pure perché può marcare differenze identitarie. Nelle nostre città nessuno usa più il termine “polentone”, ma tutti ricordiamo la recentissima “guerra dei kebab” condotta da sindaci e amministratori, con l’intento di diminuire il numero dei kebab e dei cibi etnici, considerati esplicitamente “incompatibili con i centri storici delle città italiane”. Politica e gusto.

Oppure pensiamo alla battaglia degli odori che secondo una recente statistica investirebbe i condomini italiani. Circa un quarto delle liti condominiali riguarderebbe gli odori della cucina (spesso orientale). Ci si sente infastiditi dall’odore dei cibi degli altri, si percepisce la presenza di ciò che è straniero, di ciò che non è casa.

Non è un dato da sottovalutare, né da stigmatizzare senza riflessioni. Non posso fare a meno di pensare al forte odore della cucina tedesca, un misto di grassi e minestre presente davvero in gran parte della città tedesca dove ho lavorato per anni, un odore intenso che non ti fa sentire a casa, se sei abituato agli odori del tuo cibo, ma che in certo modo ha rappresentato per me anche un’opzione, una possibilità in più, un’accoglienza convintamente concessa.

Il gusto e l’olfatto sono sensi politici: ci divideremo anche su questo? Sulle paure e le insicurezze evocate dagli odori? Arriveremo a dire, che so, che il curry è inintegrabile?
Il cibo e l’alimentazione sono industria ed economia, sono gestione del pianeta, e sono un terreno simbolico soggetto a manipolazione, una frontiera politica e un tema strategico della riflessione futura.

L’Expo 2015 ha scelto un tema straordinario. È tempo che diventi discorso pubblico.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.