Gli europei

È la prima volta che guardando gli Europei mi sento europeo. Non mi sembra di vedere un Mondiale minore, ma un campionato nazionale maggiore. Non so da che cosa dipenda. Mi ricordo che nel 1980 – martedì 17 luglio 1980, ore 17, San Siro – andai a vedere Olanda-Cecoslovacchia 1-1, gol di Nehoda al 16° e pareggio di Kist al 59° e che allora mi sembrava tutto esotico e lontano. Ma avevo 11 anni. Nell’Olanda giocavano van de Korput (poi Torino), Poorvilet e Krol (poi Napoli), i gemelli Willy e Renè van de Kerkoff, Arie Haan, Nanninga e, soprattutto, Johnny Rep, che era biondo. Della Cecoslovacchia ricordo Tibor Nilasi, ma controllando adesso scopro che era ungherese, quindi mi ricordo male. Certamente era un mondo diverso, la Cecoslovacchia apparteneva a un altro emisfero, sembrava talmente vicina all’Ungheria che potevi confonderla e confondere i suoi calciatori, ma anche l’Olanda a quel tempo era una cosa di tulipani, mulini a vento e zoccoli rossi. Era il giugno 1980 e il campionato italiano non aveva ancora riaperto le frontiere. Gli stranieri sarebbero arrivati a settembre.

Mentre scrivo è il 50°, e l’Islanda ha appena pareggiato contro il Portogallo. Ha segnato Theódór Elmar Bjarnason, detto Teddy (Rejkiavik, 4 marzo 1987, 186 cm, 81 kg) e sta esultando. Non so da dove spunti l’improvviso sentimento di familiarità che avverto, se dalla globalizzazione, dai viaggi low cost – una volta un’amica che aveva vissuto in Irlanda del nord mi disse che la guerra in Ulster era finita quando i ragazzi di Belfast nel weekend, invece di andare al pub, incominciarono ad andare a Ibiza – dall’Erasmus che ha smosso le cose, dalla televisione via cavo, da Internet o dalla Playstation che, insieme, hanno confuso i confini e mischiato i campionati, facendo improvvisamente sembrare le partite di calcio semplicemente partite di calcio. Oppure se derivi dal fatto che dal 2011 – da quando Mario Monti incominciò a ripetere il mantra che l’Europa ci chiedeva di fare i compiti a casa – l’Europa è diventata qualcosa di più, di meno astratto, che sotto lo spread e l’austerity, aveva anche a che fare con noi. Oppure è dipeso da Björk. Chissà.

Intanto Hannes Þór Halldorsson, il portiere dell’Islanda che oltre a parare per l’Islanda lavora anche in una produzione televisiva, ha appena preso un tiro di Quaresma ex Inter, e immediatamente l’allenatore dell’Islanda Lars Lagerbäck ha fatto entrare Sigþórsson, attaccante del Nantes. Halldorsson nel frattempo ha anche parato un colpo di testa di Cristiano Ronaldo da pochi metri e subito dopo l’Islanda ha sfiorato il vantaggio. Quella che sento – forse obnubilato dall’ora, dalla stanchezza e dalla simpatia per i nomi islandesi – è una prossimità culturale, sicuramente, ma anche e soprattutto fisica, corporea, incarnata in cose visibili, nel colore degli occhi, della pelle e dei peli – in quasi ogni nazionale c’è qualcuno con i capelli rossi, che forse è un tratto Neanderthal sopravvissuto all’avvento dell’Homo sapiens 40 mila anni fa – nel modo di muoversi, nei nomi di battesimo e nei cognomi dove rimangono le tracce della storia, nella dimostrazione che l’Europa – nonostante Brexit e tutti quelli che ne hanno paura – è sempre stato uno spazio aperto in cui il tempo si è mosso, dove le persone hanno viaggiato, si sono spostate e sposate, o solamente incrociate e incontrate, dove si sono mischiati geni, lingue e culture, anche quando ci sono state le guerre. L’homo sapiens arrivò in Europa dall’Asia spostandosi di isola in isola e il gol del Portogallo lo ha segnato Nani, che oggi gioca in Turchia, ma che  arrivò a Lisbona a 5 anni da Capo Verde, al largo dell’Africa.

È la prima volta che ai campionati Europei – i quindicesimi – giocano 24 squadre, forse per questo mi sembrano più belli e familiari. Ci sono l’Islanda e l’Irlanda del Nord, l’Albania e la Croazia, e l’Italia ha appena battuto il Belgio, che importò migliaia di italiani per farli scavare nelle miniere. Ma forse dipende dal fatto che gli stadi sono tutti pienissimi, nonostante quello che è accaduto a Parigi il 13 novembre. Nonostante Magnanville, i vandali e gli unni, cioè gli hooligan russi e inglesi. Forse inconsciamente gli stadi francesi mi fanno ricordare Fuga per la vittoria, e così mi commuovo. Non so. Forse dipende da Björk.

Cristiano Ronaldo ha tirato sulla barriera l’ultima punizione. È finita 1-1.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.