Milano

Abito a Milano da sempre e non mi è mai sembrata così bella. Però ho paura che le primarie di sabato e domenica saranno l’inizio di una nuova discesa.

Milano – anche se alcuni ne hanno nostalgia – non era così bella negli anni Settanta, di cui ricordo soprattutto il fumo: l’odore del fumo delle sigarette Alfa, Esportazioni e Nazionali che impregnava ogni luogo chiuso, bar, cinema, case, ospedali e scuole; l’odore del fumo dei lacrimogeni della polizia durante le manifestazioni e quello delle gomme delle auto incendiate dai manifestanti durante le manifestazioni (per esempio il 17 aprile 1975, quando in corso XXII marzo fu ucciso Giannino Zibecchi e ci fecero uscire da scuola scortati da celerini armati, come in Cile); l’odore del fumo dei tubi di scappamento che era molto più nero e denso di quanto non sia oggi; e il fumo delle fabbriche che si respirava nell’aria. In Romanzo popolare (Mario Monicelli, 1974) l’operaio Ugo Tognazzi spiega a Ornella Muti: «La fabbrica si distingue dal fumo, come una bandiera. Ma lo sai che un lavoratore quando vede il fumo della sua fabbrica è come un bambino davanti al panettone? Guarda, ci sono i fumi grigi, rossi, verdi. Ecco, vedi, la mia fabbrica è quella là, a sinistra, quella col fumo giallo, dopo il gasometro». In Milano, 1979, Lucio Dalla canta: «Milano tre milioni respiro di un polmone solo».

Milano – anche se altri ne hanno nostalgia – non era così bella neppure negli anni Ottanta , quando la nebbia si dileguò. Forse aveva paura che, pur di mandarla via e rendere tutto più chiaro, avrebbero spianato il Turchino, come aveva proposto un signore a Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora. Negli anni Ottanta la fatica di chi con il lavoro e la politica aveva prodotto tutto quel fumo si trasformò in voglia diffusa di bere e mangiare. Era un’euforia animale e ottimista, in giacca e cravatta. Una gioia di mettersi a tavola che andava in scena ogni giorno da Marchesi, da Peck, al Gran San Bernardo o al Savini in Galleria, senza sensi di colpa, perché tutti erano convinti che a Milano, in fondo, ce ne fosse per tutti. E alcuni, per avidità e ipocrisia, pensarono che il modo più efficiente per ridistribuire la ricchezza fosse “far girare la grana”, insomma, rubare.

La fiducia socialista e umanitaria di inizio del Novecento di potere dare qualcosa a ognuno – quella che aveva spinto a costruire le Cucine economiche, le Scuole di formazione professionale femminile e le osterie delle cooperative operaie – si mischiava mostruosamente ma efficacemente alla fede lombarda nel lavoro e nella sua capacità di premiare i migliori. E i più furbi. Poi arrivò un carnevale di metà anni Ottanta in piazza Duomo: le bambine erano vestite da Colombina e i bambini da Zorro, e c’ero anche io spero non vestito da Colombina o da Zorro, insieme a mio padre, e all’improvviso apparve Carlo Tognoli, un socialista misurato e cortese che fu sindaco dal 1976 al 1986, e allora mio padre si mise a urlare: «Guardate! Guardate! C’è uno vestito come il sindaco Tognoli!». E tutti si girarono a guardarlo, a fissare quell’omino con gli occhialetti che stava attraversando la piazza. E anche l’omino con gli occhialetti sentì e fece una faccia spaventata e, per un attimo, io credo, si domandò se fosse davvero il sindaco Tognoli o qualcun altro che lo impersonava.

Gli anni Novanta a Milano iniziarono il 24 maggio 1989 a Barcellona. La partita era Milan-Steaua Bucarest, finale di Coppa campioni. Il giorno prima Silvio Berlusconi disse: «Sono stato al santuario a pregare la Madonna perché ci aiutasse a battere i comunisti». Poi parlò di battaglia tra Bene e Male. Gianni Brera si aggirava sulla tribuna del Camp Nou sbevazzando vino rosso da un bicchiere di plastica. Il Milan vinse 4-0. Il muro di Berlino sarebbe caduto in autunno. Nei giorni prima della partita l’autostrada da Milano alla Catalogna si riempì di macchine milaniste. 80mila persone viaggiarono per 979 km solo per vedere la finale e rifarne altrettanti all’indietro. Barcellona faceva impressione: una città d’Europa si era trasferita dentro un’altra. Fu un esodo epocale che per me concise con l’apparizione della società di massa: era il segno che qualcosa nel modo di viaggiare e consumare – anche il calcio – era cambiato; e che in Europa ci si poteva muovere su e giù in giornata. Presto – si respirava nell’aria – sarebbero arrivati i voli Low Cost. La divisione in due blocchi scricchiolava, la storia finì e il capitalismo si mise a trionfare. Poi, nel 1992, un immenso blocco di marmo bianco cadde dal cielo, come il monolite nero di Odissea 2001 di Kubrick. Era il Palazzo di Giustizia, progettato da Marcello Piacentini e terminato nel 1940, anno XVIII dell’era fascista. Sopra c’era scritto: «Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia» (“La Giurisprudenza è la conoscenza degli affari divini e umani”). Fino ad allora a Milano nessuno ci aveva prestato attenzione.

Così, il 18 febbraio 1992, arrestarono Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio Baggina e Martinitt, cioè di tutte le istituzioni sociali e solidali della città. Il pm era Antonio Di Pietro che nel 1986, durante un’inchiesta su un giro di patenti truccate aveva convocato come testimone una mia amica neo patentata. La accompagnai. Ricordo un tipo energico e affabile, a metà strada tra don Ciccio Ingravallo e una specie di John Wayne venuto dal Molise. Neanche quella volta ci andò giù leggero: 102 arrestati di cui 80 soltanto a Milano. Ritornando a Mario Chiesa, se si va a rileggere il Corriere del giorno dell’arresto si scopre che il tempo si fermò lì, congelando tutti nelle posizioni in cui si trovavano allora: Aldo Grasso scriveva di televisione in prima pagina e ci scrive tutt’ora; Angelo Panebianco già denunciava «la crisi delle istituzioni repubblicane» e non ha mai smesso; Vittorio Sgarbi era stato condannato per assenteismo (titolo in prima pagina: «I mali di Vittorio? C’è anche la diarrea»); nelle cronache cittadine Alessandro Sallusti – probabile prossimo candidato sindaco del centrodestra – riportava la convinzione di Bobo Craxi che «il partito socialista milanese ne fosse completamente estraneo»; al Teatro Smeraldo – che oggi è Eataly – c’era anche Beppe Grillo con uno spettacolo in cui incitava la gente a telefonare per protestare contro i politici: «Siamo in gentocrazia», disse in un’intervista uscita sul Corriere il 17 febbraio 1992 «e nessuno ha più timore di farsi avanti e dire la sua». L’entrata in politica di Berlusconi, due anni dopo, avrebbe finito di intrappolare Milano e l’Italia, come insetti nell’ambra.

Gli anni Duemila passarono senza lasciare impronte, come il bordo di schiuma di un’onda. Le cose importanti accadevano altrove: la Silicon Valley, il G8 di Genova, l’11 settembre, l’Afghanistan e l’Iraq, perfino il Parlamento Padano lo misero a Vicenza e a Monza, invece che in città. Passarono anche i sindaci, tutti invariabilmente di centrodestra: Marco Formentini, affabile leghista spezzino, Gabriele Albertini, industriale nel campo delle pressofusioni in alluminio, e Letizia Moratti, impettita ex presidente Rai, ministra dell’Istruzione, cognata del presidente dell’Inter. Il centrosinistra era scomparso, non esisteva più. Era ancora davanti al palazzo di Giustizia a resistere, resistere, resistere. Per risollevarne le sorti, nel 2000 da Roma mandarono Pietro Folena che affittò un ufficio in piazza San Babila per lanciare il sedicente Coordinamento del Nord di cui, per fortuna, non si seppe più nulla. La città era saldamente nelle mani del centrodestra. Erano rimaste due opzioni: che tutto fosse lecito o che tutto fosse illecito. In mezzo, più niente.

Lega-Berlusconi-CL raccoglievano i voti delle periferie e, intanto, garantivano il centro. Perché a Milano si vince se e solo se si vince in zona 1, cioè nella cerchia che dal Duomo arriva ai Bastioni. È la zona in cui abita quella che un tempo si sarebbe definita buona borghesia: quella che all’inizio del Novecento ebbe istinti socialisti e umanitari, ma che poi si spostò verso il fascismo temperato del Corriere della sera, e che poi, nel dopoguerra, affidò la ricostruzione all’energia e alla fame degli emigranti e degli orfani allevati nei suoi orfanotrofi, come Angelo Rizzoli; la buona borghesia i cui figli presero parte e diedero forma anche nel sangue agli anni Settanta; quella che negli anni Ottanta si lasciò incuriosire da Craxi e nei Novanta e Duemila si sentì garantita da Berlusconi; la stessa che, nel 2011, decise di scrollarsi di dosso quell’ingombro ventennale per votare in massa un altro figlio suo: Giuliano Pisapia.

Milano è una città tolemaica, fatta di cerchi concentrici che si possono valicare solo se chi sta al centro lo permette, ma non si valicano mai una volta per tutte. Ogni cerchia è omogenea e vota di conseguenza. A renderla bella negli ultimi anni – più ancora delle opere pubbliche e delle piste ciclabili, più ancora di Expo, Porta Nuova, Darsena e Fondazione Prada, perfino più dei due arcobaleni del giorno della vittoria di Pisapia – sono state due cose: la prima è che alle persone, dopo anni, è venuta voglia di uscire di casa; la seconda è che la città non ha più un solo centro, ma ha moltiplicato i suoi punti cardinali, e quindi, assomiglia meno all’Inferno di Dante.

Giuliano Pisapia – un po’ per la sua storia personale e un po’ per la storia in generale – ha tenuto insieme queste spinte divergenti e casuali, centrifughe e centripete, le tradizioni operaia, socialista, cattolica, comunista, garantista e legalitaria, libertaria e borghese. E le avrebbe tenute insieme anche nel prossimo mandato, così da completare una stagione. Per questo, la sua scelta di non ricandidarsi – che va rispettata – appare incomprensibile. Al posto suo ha lasciato tre candidati che lo riassumono a pezzi – Sala, Balzani e Majorino (scusandomi con Antonio Iannetta, il quarto) – e un elettorato diviso in tre parti, come quando il centrosinistra perdeva. Milano oggi ha molti centri, ma è meno centrale. Chi va a votare alle primarie si chiede di nuovo che cosa farà la magistratura in caso di vittoria di Sala; si domanda se votare Balzani – il vicesindaco candidato di Pisapia – davvero significhi indebolire Renzi, come ti dicono livorosi al telefono molti dei suoi supporter, e se abbia senso prendersi un sindaco per indebolire un primo ministro; e pensa che forse converrebbe togliersi il dubbio votando Majorino, di cui tutti parlano bene e quindi non si capisce perché non sia stato il candidato di tutti. Intorno, gli altri stanno a guardare. Passera – che ha fatto una campagna più di destra di quella che avrebbe fatto Salvini – spera nella sconfitta di Sala per prendere un po’ dei suoi voti. Sallusti rimane in agguato. Sa che il suo alleato maggiore è la divisione degli altri. Quanto a me, non so se voterò. Sono un po’ di cattivo umore. Forse metterò tre croci – o anche quattro se mi va – sul centrosinistra.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.