Ho visto The Hateful Eight

Ho visto The Hateful Eight, l’ottavo film di Quentin Tarantino, che negli Usa è uscito il 31 dicembre, ma in Italia uscirà soltanto il 4 febbraio. L’ho visto in inglese e in televisione – ma la televisione era molto grande e l’impianto audio molto potente – nella versione standard di 2 ore 47 minuti. (La versione integrale di 3 ore e 2 minuti sarà visibile solo al Cinema Arcadia di Melzo, in provincia di Milano).

La prima metà è nuova, quasi sperimentale, popolata di personaggi terribili che sembrano nevicati dal cielo nel mezzo dell’inverno americano di fine Ottocento. Ma la promessa iniziale si spegne via via in una serie di scene già viste, comunque non sostenute da personaggi all’altezza dei film precedenti né per scrittura, né per caratterizzazione, né soprattutto per motivazioni. The Hateful Eight alla fine mi ha lasciato l’impressione di un film quasi di maniera, in cui il piacere di raccontare – non essendo sostenuto da urgenza emotiva o etica o estetica profonda – si sviluppa come un esercizio di scrittura, regia e recitazione. Il dispositivo narrativo è nuovo, ma Tarantino ne rimane imprigionato, e non riesce a uscirne se non adottando soluzioni vecchie.

È un film a capitoli, preparato da un prologo. La Guerra di secessione americana è appena terminata, una diligenza attraversa il Wyoming coperto di neve. Trasporta il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua taglia Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). La diligenza è diretta a Red Rock, dove Domergue verrà impiccata e Ruth riscuoterà la sua ricompensa. Sulla strada si imbattono in un altro cacciatore di taglie, il maggior Marquis Warren (Samuel L. Jackson), un ex soldato nordista che sfoggia una lettera a lui personalmente indirizzata da Abraham Lincoln. Poco dopo, la diligenza raccatta per strada Chris Mannix (Walton Goggins), un tizio che sostiene di essere il nuovo sceriffo di Red Rock, perché quello vecchio è appena stato ammazzato.

Nel prologo il dialogo è fittissimo, teatrale, riempie ogni pausa e ricorda – per quanto in modo meno surreale e divertente – il dialogo con cui Tarantino si presentò nel 1992 nella scena iniziale di Reservoir Dogs, Le iene, quella in cui si discute se sia giusto o no lasciare la mancia alle cameriere e si fa l’esegesi di Like a Virgin di Madonna. La differenza è che al posto del via vai della cameriera, in The Hateful Eight, ogni pochi minuti c’è una gomitata in faccia o una testata alla povera Daisy Domergue, che ha un occhio nero, il naso rotto e la faccia coperta di sangue, ma essendo una dura non si scompone più di tanto. La pellicola Ultra Panavision 70mm – quella del Cinemascope dei film western, ma con definizione totale – trasforma il paesaggio in uno spazio bianco e gelato, dove senti il freddo sulla pelle e l’odore di esseri umani, cavalli, abeti e sangue rappreso. Le musiche di Ennio Morricone sono, insieme, sufficientemente nuove e sufficientemente familiari da predisporre al gran godimento che verrà.

Alla fine del prologo, però, accade qualcosa. Qualcosa che potrebbe essere meraviglioso, e in qualche misura all’inizio lo è. Una tormenta di neve costringe i viaggiatori a fermarsi al Minnie’s Haberdashery, “il negozio di Minnie”, una specie di rifugio saloon nel mezzo del nulla. Un messicano spiega ai nuovi arrivati che i proprietari non ci sono perché Minnie è dovuta correre dalla madre morente. Nel rifugio, oltre al messicano, ci sono altri personaggi, tra cui un vecchio generale sudista (Bruce Dern) diretto alla tomba del figlio, un boia inglese azzimato (Tim Roth) e un bovaro con i capelli tinti (Michael Madsen). In pochi minuti – ed è una sopresa – quello che si annunciava come un grande film di paesaggi e frontiere si trasforma di fatto in una commedia teatrale, con dialoghi assurdi che a tratti ricordano quelli di Rosencrantz e Guildersten sono morti di Tom Stoppard, tra personaggi intrappolati e in attesa di capire, come in A porte chiuse di Jean-Paul Sartre, ma soprattutto in un’ultima allucinata metamorfosi di quei film tratti da o ispirati a Agatha Christie – da Assassinio sull’Orient Express a Dieci piccoli indiani a Invito a cena con delitto – in cui un gruppo di personaggi che tra loro non si conoscono, si ritrova a condividere un luogo da cui nessuno può uscire e un mistero da risolvere.

Dagli spazi aperti del cinema ci si ritrova scaraventati nella scrittura e nel teatro. Il film si trasforma in puro dialogo e gioco tra le parti, nell’impossibilità di capire chi sia davvero chi, quali intenzioni abbia e se identità e intenzioni corrispondano davvero a quelle che dichiara. Tarantino ricomincia dal fermo immagine della sua scena più famosa – il duello incrociato, impantanato in situazione di stallo in cui ognuno tiene sotto tiro qualcun altro – e prova a scioglierlo attraverso le parole dette e le azioni, cioè attraverso la scrittura. Per la prima volta prova a rinunciare al cinema, cioè alla facilità con cui il cinema sa rendere semplici – spettacolarizzandole – situazioni che non lo sono affatto. È un tentativo coraggioso, una scommessa folle sulla narrazione, che sconcerta e incuriosisce.

Il conflitto si precisa, i due veri protagonisti si definiscono, l’identità dei personaggi si chiarisce e si comprende il motivo della loro presenza in quel luogo. Ma le soluzioni narrative non sono all’altezza della scommessa iniziale. Il film – e Tarantino, in primo luogo – rimane imprigionato nella trappola che ha costruito. E non può uscirne se non utilizzando a piene mani, continuamente, ossessivamente, i mezzi del suo cinema – cioè, il sangue – non più sorretti da un contesto scenico adeguato e non più attutiti dall’ironia, cioè dal distacco e dal piacere del racconto. Ma poiché le armi, da sole, non bastano a garantire la narrazione, Tarantino è costretto a evadere dal saloon ricorrendo al più ovvio degli schemi narrativi – i flash back – e, in un caso, perfino, alla voce narrante che rispiega da capo, ma da un’altra prospettiva, una scena che si è appena svolta. Gli otto personaggi principali, e i pochi di contorno, si rivelano esseri viventi determinati soltanto a sopravvivere e sopraffare. Non c’è nient’altro: non c’è l’amore di Django, l’attrazione erotica di Pulp Fiction, la forza di Jackie Brown. E questo fa crescere una sensazione di gratuità. L’esperimento prevede solo personaggi negativi – hateful, cioè detestabili, odiosi – animati dall’unico istinto di rimanere vivi. Ma che ci riescano o no, per chi guarda, è indifferente, così si assiste al loro destino come a un esercizio di stile, in fin dei conti, abbastanza noioso.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.