Cosa succede se vince Brexit

Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito voteranno per il referendum soprannominato “Brexit”, voteranno cioè per rimanere o per lasciare l’Unione Europea. Il governo britannico ha fatto sapere, attraverso la pubblicazione di un rapporto, che la vittoria del voto favorevole all’uscita del Paese dall’Unione Europea rappresenterebbe il primo passo di una complessa procedura (che potrebbe durare anche dieci anni). Si tratterebbe del primo caso di uscita di uno Stato membro nella storia dell’Unione Europea e per questo diversi aspetti, al momento, appaiono incerti. A causa dei trattati siglati dalle due parti si attiverebbe una serie di trattative su vari settori: dalla modalità di uscita fino ai nuovi accordi di tipo commerciale. Nel Regno Unito diversi analisti sostengono che in caso di vittoria dei favorevoli all’uscita, l’Unione Europea potrebbe proporre un nuovo accordo, pur di evitare rischi di instabilità politica ed economica. Poniamo l’ipotesi che i favorevoli all’uscita del Regno Unito vincano il referendum: cosa accadrebbe nelle ore successive, nelle settimane che verranno, nei mesi futuri alla data del 23 giugno?

Un articolo del Guardian prova a immaginare alcuni dei fatti principali che potrebbero verificarsi dopo la pubblicazione dei risultati definitivi, che arriveranno soltanto durante le prime ore di venerdì 24 giugno. La prima cosa che dovremmo aspettarci sarà una dichiarazione pubblica del primo ministro David Cameron, probabilmente corrucciato (il governo ha fatto campagna per rimanere nell’Unione Europea), in cui dirà – davanti alla sede di Downing Street – che non potrà che rispettare il voto del popolo britannico: Cameron ha già fatto sapere che a prescindere dal risultato del referendum non si dimetterà, specificando di ritenersi la persona più adatta per le future contrattazioni tra il suo Paese e la UE. In altre stanze, i dirigenti del ministero del Tesoro britannico, della banca d’Inghilterra e della Banca Centrale Europea (BCE) si adopereranno per mettere in pratica tutte le misure necessarie a mantenere la liquidità dei mercati e lo scambio regolare tra sterlina ed euro, accompagnando tutto ciò con delle dichiarazioni ufficiali e tranquillizzanti.

Nel weekend successivo al voto i rappresentanti delle principali istituzioni europee convocheranno delle riunioni straordinarie con i capi di Stato e di governo, mentre negli uffici della Commissione europea a Bruxelles alcuni dirigenti dichiareranno che l’Europa terrà la schiena dritta, senza mostrare alcuna volontà nel mettersi subito al tavolo per trattare le nuove negoziazioni: queste ultime non possono prolungarsi oltre i due anni dalla notifica ufficiale, a meno che tutti gli Stati membri della UE decidano di estenderle. I giornali britannici che usciranno dal 24 al 26 giugno riporteranno le dichiarazioni dei vincitori e centreranno la loro discussione sull’irreversibilità del voto, analizzando l’incredulità di chi si occupa dei sondaggi e di alcuni navigati analisti politici che fino a qualche mese fa non avevano previsto l’escalation del voto anti-europeista, mentre a una lunga serie di esperti verrà chiesto di chiarire le clausole dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona del 2009, che regola il recesso di uno Stato membro.

Circolerà anche un’ipotesi (consentita dai trattati) secondo la quale il Regno Unito potrà decidere nei prossimi due anni di fare un passo indietro, magari grazie a un nuovo referendum promosso da un Parlamento guidato da un’ampia vocazione europeista. A breve giro inizieranno a emergere le prime e complesse divisioni all’interno di alcuni Paesi legati al Regno Unito, come la Polonia, Malta e Cipro. Anche la Slovacchia, che avrà la presidenza del Consiglio europeo nella seconda metà del 2016, si mostrerà riluttante nei confronti di una netta separazione. A una settimana dal voto l’atteggiamento della Commissione europea continuerà a essere duro, in modo da far intendere agli altri Paesi a maggioranza anti-europea che l’opzione di un’uscita dalla UE non è un’opzione a costo zero. I governi di Francia e Germania guarderanno con interesse ai fatti dei primi giorni successivi al referendum, dato che nel 2017 si svolgeranno nei loro Paesi le elezioni politiche: cercheranno di capire come fronteggiare al meglio i partiti nazionalisti in ascesa nei sondaggi e avranno un occhio di riguardo per le questioni del mercato unico e della libera circolazione dei lavoratori.

Brexit

(Stephanie Pilick/picture-alliance/dpa/AP Images)

A due settimane dal voto potrebbe aumentare la pressione politica nei confronti del primo ministro David Cameron: da una parte quella esercitata dai conservatori più oltranzisti interni al suo partito e dall’altra quella dei partiti vincitori del referendum. Cameron dovrà decidere se mantenere la linea annunciata nel post voto e tenere duro fino all’autunno del 2016, oppure decidersi a presentare le dimissioni, innescando una serie di conseguenze pericolose per il Paese, anche a livello economico. In questo scenario l’asse politico del partito Conservatore formato oggi da Cameron e George Osborne, il cancelliere dello Scacchiere britannico, passerebbe di mano al ministro della Giustizia Michael Gove e all’ex sindaco di Londra Boris Johnson, che in un’intervista rilasciata a maggio aveva comparato alcuni atteggiamenti della UE a quelli di Napoleone e Hitler, attirando su di sé le critiche del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker: il capo dello staff di Juncker, Martin Selmayr, aveva replicato dicendo che immaginare Johnson come futuro primo ministro del Regno Unito rappresenterebbe uno «scenario orribile».

Arrivati all’autunno del 2016 la Brexit sembrerà davvero realtà, anche grazie alla notifica dell’attivazione del famoso articolo 50 del Trattato di Lisbona, inerente la clausola di recesso dalla UE. Il Consiglio dei ministri dell’Unione Europea dovrà approvare – tramite una maggioranza qualificata – un mandato di negoziazione alla Commissione europea, in forma di direttiva. Il Regno Unito dovrà rinegoziare circa 80mila pagine di accordi con la UE e dovrà scegliere quali norme tenere come legge vigente nel proprio ordinamento e di quali disfarsi. I funzionari del Parlamento britannico confideranno in privato alla stampa che nessuno sa realmente quanto tempo ci vorrà, mentre alcuni ministri dichiareranno che queste procedure rallenteranno per anni le attività parlamentari. Lo scenario della fine dell’anno rimarrà molto complesso per quanto riguarda i singoli punti degli accordi, ma sarà chiaro a tutti che la prima serie di negoziati sull’uscita del Regno Unito dalla UE saranno completati entro due anni. Altrimenti tutto potrebbe cadere. Si discuterà delle questioni riguardanti i residui di bilancio tra i due soggetti e dei pagamenti rimasti in sospeso, da saldare da una parte e dall’altra. Il dibattito politico ripreso dalla stampa sarà incentrato sui diritti acquisiti e sui diritti persi dai cittadini britannici in Europa e sui diritti dei cittadini della UE nel Regno Unito. Ci saranno proteste per quanto riguarda il pagamento delle pensioni dei funzionari britannici che hanno operato nelle istituzioni europee e si dovrà trovare una soluzione per le agenzie europee che operano nel Regno Unito.

Il 2017 si presenterà come l’anno più difficile per quelli che sostengono la Brexit. Il vero nodo, emerso da quando è stato votato il referendum, riguarderà gli accordi di tipo economico: sembreranno lontani i giorni in cui Matthew Elliott, allora capo esecutivo della campagna per l’uscita, dichiarava che il Regno Unito sarebbe stato in grado di mantenere invariate le condizioni di scambio con il mercato unico, senza dover più essere costretto a pagare delle quote al sistema e senza dover subire passivamente la libera circolazione dei lavoratori; o di quando sosteneva che l’accesso al mercato europeo, per le industrie britanniche, sarebbe rimasto esente da nuove tariffe e da dazi. Da parte sua il governo continuerà a ripetere che il 44 per cento delle esportazioni del Regno Unito sono dirette alla UE, mentre solo l’8 per cento delle esportazioni UE arrivano nel Paese: questo farà sì che sia proprio il Regno Unito a dover cedere nelle contrattazioni per un nuovo accordo.

Bristol, Inghilterra (Regno Unito)

(Matt Cardy/Getty Images)

Le elezioni politiche che si terranno in Francia e in Germania saranno pesantemente condizionate dai negoziati intercorsi tra l’Unione Europea e il Regno Unito nell’ultimo anno: il vento dell’anti-europeismo si sarà indebolito, anche a causa delle diverse questioni aperte dalla Brexit ancora rimaste in sospeso a quasi un anno dal referendum. I negoziati saranno ancora in alto mare, il sistema di relazioni apparirà complesso e la vita al di fuori dell’Unione Europea apparirà piena di svantaggi agli occhi degli elettori francesi e tedeschi (ma anche a quelli dei cittadini britannici). All’avvicinarsi del 2018 l’Unione Europea avrà ceduto a poche delle richieste presentate dal Regno Unito e la scadenza per la realizzazione della Brexit sarà ormai vicina. Si susseguiranno continui incontri bilaterali tra i rappresentanti delle istituzioni europee e il primo ministro Boris Johnson, che annuncierà la sua volontà di trattare fino all’ultimo minuto a disposizione. Pur ottenendo pochissimo, rispetto a quello che tutti si aspettavano, Johnson riuscirà a chiudere l’accordo per l’uscita del Regno Unito dalla UE, mentre per quanto riguarda i rapporti commerciali tutto sarà ancora da chiarire.

Il Regno Unito cesserà così di essere un membro dell’Unione Europea e i rapporti commerciali con il mercato unico saranno regolati in base a quanto previsto dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (al di fuori del mercato unico), e saranno applicate delle tariffe sulle proprie esportazioni. L’accordo raggiunto da Johnson dovrà essere approvato dalla maggioranza qualificata del Consiglio dei ministri della UE e verosimilmente ogni alleato del Regno Unito, tra quelli rimasti, sarà messo in minoranza. Una successiva approvazione dovrà arrivare dal Parlamento europeo e dal Parlamento del Regno Unito, fino alla ratifica di ogni singolo Stato membro. Il Regno Unito sarà fuori dalla UE, mentre Boris Johnson continuerà a fare avanti e indietro da Bruxelles nel tentativo di chiudere un nuovo accordo commerciale. Il processo del Regno Unito per diventare uno Stato membro dell’Unione Europea è durato circa dodici anni, chissà quanto durerà quello della Brexit.

Francesco Marinelli

Giornalista, qui per parlare di Europa, su Twitter è @frankmarinelli