Boldrini, Marchionne e i no che fanno bene

Quanto rumore per nulla, quante rapide tanto inutili levate di scudi, quanto chiacchiericcio fuori luogo a infilzare in punta di accesa reprimenda il presidente della Camera Laura Boldrini. Macchiatasi, ma come si è permessa, della colpa imperdonabile di aver detto di no a Marchionne. Di aver declinato l’invito a visitare domani lo stabilimento Fiat in Val di Sangro.

Che poi in realtà non è andata esattamente così. Perché la Boldrini aveva già impegni istituzionali in agenda, come si è premurata di ricordare in una lettera inviata in risposta all’amministratore delegato della Fiat. Nella quale ha poi aggiunto un paio di considerazioni pienamente legittime, se non addirittura doverose, visto che la missiva veniva inviata all’indomani della decisione della Corte Costituzionale che, intervenendo sull’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, dichiarava illegittima la previsione che assegna ai soli firmatari di contratti la possibilità di costituire proprie rappresentanze sindacali aziendali. In poche parole, la Fiom tenuta fuori negli ultimi anni dalle relazioni sindacali della Fiat, avrebbe diritto di rientrarvi, anche se la Consulta ha lasciato aperte ancora molte questioni.

Queste le considerazioni del numero uno di Montecitorio finite nel tritacarne:

«Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura, dell’innovazione. Una via che non è in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa».

Apriti cielo, non le avesse mai espresse, che subito si è levato un coro di proteste. Ora passi (si fa per dire, naturalmente) che ad alimentarle sia qualcuno del centrodestra, di quelli che una polemica non si nega mai a nessuno. Ma che anche nel centrosinistra ci sia stato chi abbia storto il naso francamente stupisce. Anche perché verosimilmente, come ci ha tenuto a sottolineare Susanna Camusso, l’invito della Fiat è stato «costruito provocatoriamente» in quanto solo qualche giorno prima la Boldrini aveva incontrato una delegazione di dipendenti Fiat guidata dal leader della Fiom Maurizio Landini e che Marchionne si era affrettato a definire «non rappresentativa».

Mi riferisco in particolare al neo senatore del PD Massimo Mucchetti, che da giornalista economico, prima per l’Espresso e poi per il Corriere della sera, ho sempre, nel complesso, stimato.
Mucchetti ha preso carta e penna e ha scritto a Repubblica una letterina pubblicata sabato, già dal titolo decisamente eloquente: «L’occasione mancata». A suo avviso ci sono modi e modi di andare come ospiti da Marchionne. C’è quello dell’ex premier Monti che si recò a Melfi «per sponsorizzarlo ed esserne sponsorizzato». Ma ce ne può essere anche un altro in cui tu accetti un invito e poi, una volta che sei sul posto, a favor di telecamera, esprimi tutta una serie di dubbi e perplessità. Scrive Mucchetti:

«Pensi la presidente Boldrini quante questioni avrebbe potuto porre tra un robot e l’altro a favor di telecamera: perché Fiat industrial sposta la holding all’estero e si dota di due classi di azioni? Fiat Spa farà lo stesso? Come sopravviveranno gli impianti italiani se Fiat cercava la riduzione concordata e sussidiata delle capacità produttive tra le case europee? Come si regolerà dopo la sentenza della Corte dei sindacati? Perché Fiat investe nel Corriere?».

Ora a parte che (a prescindere dalle domande pertinenti e ben formulate) considero un po’ troppo cervellotico e poco “istituzionale” questo modo di agire: in pratica la Boldrini avrebbe dovuto accettare l’invito serbando in animo un convincimento del tipo, per riassumerlo alla romana: «Mo’ te faccio vede’ io che combino quanno vado là». Non è propriamente lodevole, anche solo pensarlo. Ma la questione di fondo è un’altra: forse è davvero arrivato il momento non più rinviabile in cui il gruppo Fiat, questa Fiat targata Marchionne-Elkan, dovrà spiegare al Paese cosa intende fare “da grande” e come si vede “da grande” nel nostro Paese. I margini per “tergiversare” come ormai va avanti da tempo si sono fortemente ridotti. Anche perché lo stesso quadro politico non ne consente più. Sono finiti i tempi in cui Marchionne diceva una cosa e buona parte degli schieramenti politici lo seguiva a ruota. Adesso no, adesso è tutto un cercare di capire chi sta con chi.

Si ripropone, per certi versi e fatte le debite proporzioni, una situazione analoga a quella che accadde vent’anni fa a Enrico Cuccia con Mediobanca. Era l’epoca della grandi privatizzazioni di Stato e Romano Prodi dal vertice dell’Iri tentava di opporsi alle mire di Cuccia di imporvi la regia di Mediobanca. Allora Cuccia decise di bypassare il Professore e, d’accordo con Antonio Meccanico, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e con Andrea Manzella, segretario generale di Palazzo Chigi, si mise all’opera per predisporre un decreto che assegnasse a Mediobanca e all’Imi l’esclusiva delle privatizzazioni. L’intento era quasi a un passo dal realizzarsi se non fosse intervenuto il presidente del Consiglio Ciampi che, con un abile mossa, chiese un parere in proposito al Comitato per le privatizzazioni guidato dall’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Vista la bozza del decreto il Comitato la bocciò, con il voto peraltro assai “pesante” di due giuristi tra i più vicini a Mediobanca: Piergaetano Marchetti (oggi presidente del suo patto di sindacato) e Ariberto Mignoli (allora presidente del suo patto di sindacato). Come a dire, persino tra coloro che volevano più “bene” a Mediobanca arrivò un segnale di moderazione, una sorta di invito a non esagerare.

Chissà allora che anche il no della Boldrini possa servire da monito alla Fiat e a Marchionne a non tirare troppo la corda con le rappresentanze sindacali. E anche Mucchetti, da attento osservatore delle dinamiche economiche qual è, sa che una simile ipotesi non è da escludersi. Tra l’altro, l’episodio di Mediobanca in questione, l’ha raccontato lui stesso, a pagina 340, nel suo bel libro-intervista a Cesare Geronzi Confiteor.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com