Confindustria punto e a capo

Bilancio piuttosto magro, purtroppo, quello della presidenza di Confindustria targata Emma Marcegaglia che oggi chiude i battenti. Quattro anni trascorsi percorrendo una direzione di marcia incerta, con una visione strategica non sempre convincente su cosa voglia dire fare impresa e sulle sue numerose implicazioni civiche, sociali, etiche, senza quella necessaria e doverosa critica (anche spietata, avrebbe suggerito Guido Carli, suo predecessore negli anni Settanta) degli errori commessi dagli stessi imprenditori in questi anni. Al contrario tante parole e parole d’ordine. Spesso però lontane dalla realtà.

Eppure tutto era cominciato sotto ottimi auspici nel 2008: il primo presidente donna nei cent’anni di vita dell’associazione degli industriali; il mandato che seguiva presidenze tutt’altro che memorabili per cui non sarebbe comunque stata opera ardua far di meglio; il segnale positivo del ricambio generazionale con i suoi poco più di quarant’anni di età; la crisi economico-finanziaria che da lì a breve sarebbe esplosa in tutto il mondo che poteva rivelarsi un’occasione irripetibile perlomeno per provare a ridisegnare i profili del capitalismo nostrano in vasta parte ancora troppo autoreferenziale, familistico, protetto, furbo, poco o affatto lungimirante.

Invece le aspettative sono risultate spesso disattese. E anche l’ultimo atto, l’”intervista testamento” consegnata ieri alle colonne amiche del Sole 24 Ore ricalca una simile falsariga. Per dirne alcune: non un accenno alla lotta all’evasione fiscale ma ampio spazio ai lamenti per gli eccessi di pressione fiscale; non una censura a quel certo non trascurabile vizio di non pochi industriali di “dedicarsi” alla rendita piuttosto che agli investimenti bensì una quasi piena “assoluzione”: «Se mai c’è stata questa “devianza” mi pare una cosa del passato e su scala comunque molto ridotta». Non un accenno di autocritica per qualche errore commesso ma uno scontato trasferimento di responsabilità per il deficit di produttività su Stato e Pubblica Amministrazione. Unica “apertura”: «Non mi sfugge che un pezzo di sistema deve fare il salto di qualità quanto a investimenti in innovazione, in qualità delle produzioni, in iniziative per l’export».

Ma come suonano diverse, ben più “esaurienti” in proposito queste recenti parole dell’imprenditore Giorgio Tabellini, presidente di Cna Industria (Affari&Finanza del 23 aprile): «Se l’Italia non regge il passo della competizione globale esiste anche una responsabilità imprenditoriale… La mancanza di voglia di rischiare, di competere, di stare sui mercati. Come vogliamo chiamare tutto questo? Per me è prima di tutto segno di arretratezza culturale, che le grandi aziende italiane dimostrano da troppi anni… Mi fa male dirlo ma oggi la maggioranza delle nostre grandi aziende non è all’avanguardia nel proprio settore, ma si limita a fare sempre le stesse cose, o a copiarle e quindi sul mercato globale accumula difficoltà».

E poi il tanto declamato tema della crescita divenuto presto invece che un formidabile cantiere di complessità, innanzitutto culturale («La complessità non nuoce» vale ribadirlo, come riportava in copertina l’inserto domenicale La lettura del Corriere della sera del 26 febbraio scorso citando Gillo Dorfles) una di quelle parole d’ordine così “compressa” in numeri e indici da smarrire progressivamente significato e forza evocativa.

A questo punto in realtà il discorso si farebbe lungo perché è tipico del gergo d’impresa e, più in generale, del linguaggio economico, perdere progressivamente le proprie sfumature divenendo esso stesso alla fine superfluo. Su queste dinamiche Pier Luigi Celli, in L’illusione manageriale ha scritto pagine molto suggestive. Ma qui basta e avanza quanto sosteneva con la sua consueta lucidità Michele Serra in una sua Amaca qualche settimana fa (26 aprile): «Ogni tanto, nella depressione generalizzata, qualcuno (anche molto autorevole) evoca la parola “crescita” con l’aria di chi indica uno squarcio tra le nubi. Il problema è che nessuno sa più che cosa voglia dire “crescita”: di che pasta sia fatta, che novità porti, a chi porti benessere e a chi penuria. È passato ormai mezzo secolo dal celebre discorso di Robert Kennedy contro il Pil nel quale diceva, in buona sostanza, che i numeri definiscono solo delle quantità, non delle qualità. Ma ancora oggi, malgrado lo sviluppo abbia rivelato, insieme ai suoi vantaggi anche i suoi guasti, i suoi sprechi, le sue storture, si parla di crescita come di un grumo di numeri e basta».

Adesso è la volta di Giorgio Squinzi. Un imprenditore capace, alla testa di uno dei pochi gruppi, la Mapei, che può vantarsi di non aver mai licenziato nessuno, anzi di creare ogni anno circa 400 nuovi posti di lavoro nei suoi 60 stabilimenti sparsi in tutto il mondo. Squinzi è diventato numero uno di Confindustria candidandosi con un programma concreto, credibile, all’insegna del dialogo e del confronto. In una delle sue prime dichiarazioni ha affermato che intende caratterizzare il suo mandato all’insegna della sobrietà. Buon punto di partenza. Ma anche attenzione. Il termine, questo sì, mantiene ancora intatte le sue molteplici sfumature. A una, ben poco tranquillizzante, per esempio vi accenna Alessandro Piperno nel suo ultimo, bellissimo romanzo Inseparabili (pag. 48): «La sobrietà non è che il vestito buono indossato dalla ferocia».

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com