La Coop sei tu, meriti di più

Lo penso e sostengo da tempo: dopo più di vent’anni al vertice di una qualsiasi organizzazione (ma anche dopo molti di meno), si trattasse anche della persona più in gamba del mondo, bisogna cambiare. Altrimenti ne risente, inevitabilmente, la freschezza di pensiero e di proposta, la capacità di mettere a fuoco i problemi e a punto le soluzioni, il passato finisce con il condizionare, anche solo inconsapevolmente, qualsiasi decisione che riguarda il futuro e alla lunga tutto questo si ripercuote sull’organizzazione che si guida.

In larga parte del mondo cooperativo, tuttavia, non devono verosimilmente essere dello stesso avviso. È il caso per esempio di Confcooperative, una delle tre grandi centrali cooperative italiana, quella “bianca” (le altre due sono Legacoop, quella “rossa” e, molto più piccola, Agci, quella “verde” degli ex repubblicani), di cui è presidente da oltre vent’anni Luigi Marino. Per rendere meglio l’idea di questa “eternità” basti ricordare che abbiamo avuto negli ultimi due decenni come Presidenti del Consiglio Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti a fronte di un solo presidente di Confocooperative, Luigi Marino appunto.

Qualche giorno fa Marino, prendendo spunto da un’affermazione del premier inglese David Cameron che ha dichiarato che vuole promuovere una legge che faciliti la formazione di cooperative si è così espresso nella sue veste anche di portavoce dell’Alleanza delle cooperative italiane (da un anno, infatti, Confcooperative, Legacoop e Anci hanno dato vita a un alleanza per coordinare meglio l’azione di rappresentanza nei confronti di Governo, istituzioni europee e parti sociali):
«Il capo del governo britannico preannuncia leggi per favorire lo sviluppo delle cooperative. È un elemento fortemente significativo che paesi importanti come la Gran Bretagna cerchino nella cooperazione le potenzialità per creare un’economia migliore e far partecipare al successo di mercato il maggior numero di persone possibili. Al contrario, in Italia che già vanta una presenza cooperativa più articolata e significativa di quella britannica, invece di incoraggiare e promuovere questa nostra risorsa, spesso la politica la trascura e la mortifica».

Ora, a parte il fatto che è ormai evidente che c’è poco da prendere sul serio Cameron quando parla di sociale visto che la sua Big society presto si è rivelata poco più di uno slogan, che gli interessa veramente solo difendere l’industria finanziaria della City, come ben si è constatato ai primi di dicembre con il suo niet a Parigi e Berlino circa la modifica dei Trattati europei e a qualsiasi ipotesi di applicazione della Tobin tax, che ha il voltafaccia facile come documentato nel lungo articolo di Internazionale dedicato al tramonto dell’Inghilterra, ecco a parte queste non trascurabili peculiarità dell’inquilino di Downing street 10 io guarderei all’affermazione di Marino da un’altra angolazione: e se questa mancanza di attenzione verso il mondo cooperativo dipendesse dal fatto che a marcarla sono sempre le stesse persone, con gli stessi toni, con le stesse argomentazioni, con gli stessi cahiers de doléance? Possibile che un simile dubbio non sorga mai?

Un altro esempio di permanenza più che ventennale al vertice di una grande organizzazione a connotazione cooperativa è rappresentato da Alessandro Azzi, presidente dal 1991 di Federcasse, la federazione italiana delle banche di credito cooperativo (BCC). Ad Azzi vanno ascritti indubbi meriti, ha contribuito a rendere in questi anni le BCC protagoniste a pieno titolo del sistema bancario italiano. Ma anche qui il vento sta cambiando. Il vice direttore generale della banca d’Italia Anna Maria Tarantola, pur riconoscendo il prezioso contributo delle BCC allo sviluppo dell’economia nazionale ha di recente così sottolineato (Corriere Economia del 9 gennaio): «È necessario un nuovo impulso verso il conseguimento di livelli più elevati di efficienza, anche rivedendo strutture produttive e distributive adottate per realizzare ambiziosi progetti di crescita ora non più realistici… I casi di insuccesso delle BCC, prima circoscritti a banche fragili localizzate in territori disagiati, si vanno ora estendendo a regioni economicamente dinamiche e coinvolgono anche intermediari grandi e complessi».

Anche qui: non è che è arrivato davvero il momento di lasciare ad altri il timone di Federcasse per affrontare le impegnative sfide che si profilano all’orizzonte per le BCC?
E giacché abbiamo evocato i rapporti di “parentela” tra mondo cooperativo e finanza è d’obbligo un cenno alla grande operazione del momento: il “matrimonio” quasi in dirittura d’arrivo (si decide il 27 gennaio) tra la compagnia di assicurazione Unipol (il cui maggiore azionista è Finsoe Spa, a sua volta controllata per circa il 70% da 29 cooperative di Legacoop tramite Holmo Spa) e la FonSai della famiglia Ligresti.
Se dal punto di vista industriale la possibile acquisizione da parte della compagnia bolognese della società di Ligresti ha un fondamento (la sua quota di mercato passerebbe nel ramo danni dal 12,17% al 31,98% e nel ramo vita dal 5,67% al 10,76%, salvo interventi dell’Autorità Antitrust), decisamente incomprensibili (o meglio, fin troppo comprensibili) risultano le modalità finanziarie per la compravendita messe a punto da Mediobanca che vuole a tutti i costi rientrare insieme a Unicredit, dell’enorme esposizione che hanno accumulato nei confronti della compagnia di Ligresti: si tratterebbe di un vero e proprio salasso di quasi un miliardo di euro per Unipol che, per pagarlo, dovrebbe richiedere anche alle cooperative sue azioniste uno sforzo finanziario enorme.

In questi giorni sono stati in tanti a mettere in luce sui giornali con dovizia di particolari i retroscena di questa operazione molto discutibile. Ne cito tre per tutti, con i relativi titoli: Giovanni Pons su Repubblica del 17 gennaio: “Salvataggio di Ligresti e banche scaricato sui piccoli azionisti”; Salvatore Bragantini sul Corriere della sera il 19 gennaio: “Premafin-Fonsai, un Paese ingessato. Sono le logiche della finanza chiusa”; Luigi Zingales sul Sole 24 Ore del 22 gennaio: “FonSai e il dirigismo all’italiana”.

Proprio Zingales ieri, a un certo punto, scrive:
«Unipol viene scelta non perché è la migliore opzione per gli azionisti di FonSai o quelli di Mediobanca, ma perché è la meno pericolosa per il sistema di potere di cui Mediobanca è al centro. Unipol non viene scelta perché disposta a pagare di più gli azionisti, ma perché più disponibile a strapagare la famiglia Ligresti, dando a “ciascuno dei suoi componenti” (bimbi compresi?) un patto di non concorrenza di cinque anni, in cui ognuno di loro riceve 700mila euro all’anno per “non avvalersi dei loro consolidati rapporti con la rete agenziale e la clientela del grippo FonSai” come recita la lettera di intenti di Unipol. Data la performance dimostrata dalla famiglia Ligresti io avrei offerto quella cifra a qualsiasi concorrente che li volesse assumere».

Presidente di Unipol dal gennaio 2006 è Pierluigi Stefanini, un galantuomo, che ha cominciato a lavorare facendo l’operaio, ha speso molti anni della sua vita nel mondo della cooperazione che conosce come le sue tasche e che ha dimostrato rare qualità di condottiero sapendo portare fuori dalle secche una compagnia di assicurazione evidentemente molto provata dal tentativo fallito di scalata alla BNL nel 2005.
Mi auguro che Stefanini non ceda alle condizioni di acquisto che gli hanno sottoposto. Parafrasando infatti l’efficace spot “la Coop sei tu, chi può darti di più” in questo caso dovremmo dire “la Coop sei tu, meriti di più”. Molto di più.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com