Fine delle suggestioni

Adesso che la nave del governo Monti sembra salpata verso lidi di stile e di azione più sobri e tutto il milieu che ruotava attorno al vecchio esecutivo pare già diventato vecchio, decrepito, preistorico, viene inevitabile chiedersi come sia stato possibile cadere così in basso. Arrivare a superare soglie di volgarità verbale, comportamentale, culturale così alte. E non penso solo a “sforamenti” concernenti la politica ma anche a quelli del giornalismo, dell’economia, della finanza, della cosiddetta società civile. Ciascuno con proprie peculiarità, ma tutti accomunati dalla distanza abissale da ciò che, semplicemente, dovrebbe essere dignitoso.

Una gestione della cosa pubblica dignitosa, un dibattito televisivo dignitoso, un’intervista dignitosa, una condotta manageriale dignitosa, una governance bancaria dignitosa, una opposizione parlamentare dignitosa, un richiesta sindacale dignitosa, una rivendicazione del Terzo settore dignitosa, in sostanza un esercizio del potere e dei diritti/doveri di cittadinanza dignitosi.
Quando e perché tutto ha cominciato ad andare alla deriva?

La risposta a una simile domanda provò a darla Pietro Citati in un magistrale articolo apparso su Repubblica esattamente venti anni fa, il 24 novembre 1991, intitolato Italiani, magnifici cialtroni. Citati, con la raffinatezza di pensiero che solo i grandi letterati posseggono, innanzitutto premetteva che

«gli italiani non hanno mai amato la propria anima ma hanno sempre amato con passione travolgente il loro doppio, il loro personaggio: quel pittoresco buffone, quell’immaginoso e grottesco cialtrone, che agiva nel mondo, si esibiva, parlava di sé recitava, ostentava i propri gesti, si imponeva, qualche volta si prendeva in giro, entrava in un salotto come fosse un teatro costruito soltanto per la propria glorificazione».

E poi individuava la principale causa dei nostri mali in una piccola frase che una decina di anni addietro aveva cominciato a diffondersi:

«Era soltanto una frase, niente più che un flatus vocis, che avrebbe potuto perdersi nell’aria: ma il linguaggio governa in segreto le sorti dell’universo. Come se obbedissero a una nascosta parola d’ordine uomini politici, giornalisti, scrittori, professori, industriali, banchieri, non usarono più le quasi invisibili parolette io e mi. Cominciarono a sospettarle: il loro meraviglioso ego non poteva venir ridotto in due lettere che correvano il rischio di venir dimenticate nella conversazione e nella scrittura. Nessuno disse più “mi hanno offeso, “mi hanno criticato”, “mi hanno dimenticato”. Tutti dissero “hanno offeso la mia persona”, “hanno criticato la mia persona, “hanno dimenticato la mia persona”. Quella parola piacque moltissimo. Non si era più un piccolo io, un minuscolo mi. Di colpo, senza che nulla apparentemente fosse cambiato, ogni italiano si era disteso e dilatato in una immensa PERSONA, che incombeva come una statua di Vittorio Emanuele II – col cappello a piume, i baffi tortili e barocchi, il cavallo rampante – sulle piazze ottocentesche d’Italia. Questa, ne sono certo, è stata l’origine dei nostri mali, anche del nostro immenso debito pubblico».

Ma per il lungo termine Citati si mostrava per certi versi ottimista, l’andazzo non sarebbe potuto continuare, a suo avviso, in questo modo per sempre. E concludeva quindi così il suo pezzo:

«Sebbene possa sembrare strano, confido perfino negli esibizionisti. Non potranno vivere impunemente così a lungo lontani dalla propria anima, non potranno disprezzare sempre il proprio io profondo con una tale violenza. Ne nascono traumi, disperazioni, nevrosi, follie. Forse un giorno tutte le PERSONE si annoieranno di recitare su una ribalta completamente vuota. Lascia soddisfazioni così amare e così brevi. Tutti insieme torneranno a dire mi o io e si vergogneranno perfino di questi modesti pronomi personali. Chiusi in casa, davanti allo specchio, forse cominceranno finalmente a contemplarsi, perduti in quell’immenso dedalo di ombre e di contraddizioni che è l’animo umano».

Che Citati fosse stato lungimirante e che un epilogo come quello da lui descritto sia forse davvero alle porte ne ho tratto indizio tre giorni fa leggendo, sempre su Repubblica, la recensione di Leopoldo Fabiani del libro Suggestione di Andrea Cavalletti

Il libro ruota attorno alla novella di Thomas Mann Mario e il Mago (storia interpretata a suo tempo, per ammissione dello stesso Mann, come allegoria del potere di incantamento di Mussolini sul popolo italiano), dove Mario è un giovane cameriere che lavora in Versilia che a un certo punto non ne può più dello spettacolo di illusionismo del cavalier Cipolla, il mago appunto, fino al punto di ucciderlo sulla scena.

Cavalletti spiega così la vicenda: «Nel racconto di Thomas Mann, l’ipnotizzato uccide l’incantatore. Un finale che ha due letture diverse. Una, proposta da Lukàs e Hans Mayer, vede nella ribellione un atto autonomo della volontà del soggetto. Ma io preferisco l’altra. Che interpreta la reazione violenta di Mario interamente dentro la relazione instaurata con il Mago. Vale a dire che nell’esercitare il rapporto di dominio suggestivo si scatenano energie che possono diventare incontrollabili».

Se guardiamo agli avvenimenti delle ultime due settimane non possiamo non scorgere molte energie incontrollabili alla base della nascita del nuovo governo: molti deputati di maggioranza contrari a elezioni anticipate perché se si fosse votato avrebbero perso il diritto al vitalizio, quelli che sanno che non verranno mai più eletti in Parlamento e quindi preferiscono restarci il più a lungo possibile, la paura dell’opposizione di andare al voto senza un leader di coalizione acclarato, i mercati con i loro ottovolanti che non ammettono tregua ed esigono un governo dell’economia credibile e di mano ferma, le pressioni delle istituzioni europee affinché i nostri conti pubblici tornino presto in ordine, il famigerato spread che accumula punti su punti, eccetera eccetera.
Ma ora che comunque una svolta c’è stata ciascuno dovrà rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire. Non basta certo infatti che al governo ci sia un Mario e non un “mago”.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com