L’elefante nell’Italicum

Davanti all’ennesima discussione sulla possibilità di portare a casa una legge elettorale imperfetta oppure continuare a farla rimbalzare tra Camera e Senato, una cosa che si può fare è rispondere con l’argomento razionale del progressismo, se non addirittura con quello della riduzione del danno. Francesco Piccolo l’ha messa così pochi giorni fa, intervistato da Nicola Mirenzi:

L’altro giorno alla radio discutevano la riforma del codice stradale. Un esperto ha commentato: «È un passo avanti, ma è insufficiente». Ecco cos’è un governo riformista: un governo che fa dei passi avanti, probabilmente insufficienti. È così che sono progrediti tutti i paesi democratici europei. L’Italia invece no. Perché qui c’è gente che dice: “Questa legge elettorale non è perfetta”. Dunque meglio non fare nulla. Mentre un paese riformista è un paese che fa un sacco di cose insufficienti, anziché un paese che non fa niente perché tutto è insufficiente.

Tutto molto sensato, secondo me, persino banale. Si può obiettare che qui non si chiede di inseguire la perfezione ma di migliorare una legge, e che l’impossibilità di raggiungere la perfezione in politica non può diventare l’alibi per giustificare l’approvazione di una legge migliorabile. Questa però non è affatto una legge come le altre. In questo caso bisognerebbe armarsi di pazienza, prendersi un grosso rischio e decidere che:

– benché da dieci anni l’Italia abbia una legge elettorale che è a detta di tutti una barzelletta
– benché quella legge-barzelletta abbia fatto danni inenarrabili tutte le volte che ha reso impraticabile l’ipotesi delle elezioni anticipate oppure che ha reso ingovernabile un Parlamento eletto
– benché quella legge-barzelletta sia vista da tutti come l’esempio supremo del modo in cui la politica ha allontanato da sé gli elettori
– benché una sentenza della Corte Costituzionale abbia due anni fa giustamente mutilato la legge-barzelletta facendo restare in vigore un rottame pressoché inutilizzabile
– benché per la prima volta in dieci anni l’Italia sia oggi davvero a un passo dall’avere una nuova legge elettorale imperfetta ma che non sia una barzelletta
– benché questa situazione sia frutto di una lunga serie di fattori politici, alcuni non replicabili all’infinito, specie con un Parlamento come questo in cui la legge elettorale si era già impantanata una volta

benché tutto questo, insomma, la Camera non dovrebbe cogliere questa opportunità storica. Dopo aver cambiato la legge alla Camera (venendo incontro ad alcune obiezioni della minoranza del PD) e averla cambiata anche al Senato (venendo incontro ad alcune altre obiezioni della minoranza del PD), bisognerebbe oggi cambiarla di nuovo alla Camera (venendo incontro ad alcune altre nuove obiezioni della minoranza del PD) e farla tornare al Senato. Una volta al Senato forse qualcuno suggerirà di ritoccare ancora qualcosina, oppure di aspettare la nuova lettura della riforma costituzionale, oppure di aspettare le elezioni amministrative. E se poi tornata alla Camera qualcuno sollevasse delle altre sensate obiezioni per correggere qualcos’altro e rendere la legge ancora meno imperfetta? Come dire di no? Se vale il criterio del “facciamo presto”, vale anche adesso; se vale l’argomento “abbiamo aspettato dieci anni, facciamola ancora meglio”, vale al prossimo giro e anche a quello dopo ancora.

L’ipotesi “andiamo avanti finché non troviamo una legge che metta d’accordo tutti tutti”, come se il PD non avesse fatto un congresso, come se il Parlamento non avesse la legittimità di decidere a maggioranza, è già piuttosto temeraria, sia politicamente che ideologicamente. Lo diventa ancora di più, però, se si tiene conto che alcune delle obiezioni attuali all’Italicum contraddicono le obiezioni di sei mesi fa, e le obiezioni di sei mesi fa contraddicevano quelle di un anno fa; se si tiene conto che quelle parti dell’Italicum che oggi vengono descritte come storture inaccettabili erano accettate tranquillamente poco tempo fa (per esempio quando il PD di Bersani impose addirittura 120 candidati bloccati); oppure se si vanno a rileggere interviste come questa dello stesso Bersani nel 2012: a favore del premio di maggioranza e del doppio turno, contro le preferenze, per “conoscere il nome del vincitore la sera delle elezioni”.

L’impressione, insomma, è che dietro la richiesta di rimbalzare di nuovo la legge elettorale al Senato non ci sia né un infantile desiderio di purezza ideologica né una pulsione assemblearista incapace di prendere decisioni, bensì un umanissimo e determinato tentativo di fottere Renzi. Di “assestare un colpo che lasci il segno” – quale più di questo! – per citare un intento apertamente dichiarato pochi giorni fa proprio all’assemblea degli avversari di Renzi nel PD: un gruppo politico variegatissimo e litigiosissimo che peraltro ha davvero in comune solo il desiderio di fottere Renzi.

L’arroganza delle maggioranze in democrazia può essere pericolosa e odiosa, ma a me sembra che il lunghissimo percorso parlamentare percorso fin qui – oltre che la vittoria del congresso del PD e il consenso del Parlamento – diano a Renzi il mandato politico per portare a casa la legge elettorale. Eventualmente anche senza il consenso di un pezzo del suo partito: detto con rispetto, pazienza. La legge elettorale non è per sempre: quelli onestamente interessati a migliorare l’Italicum potranno ricominciare a lavorarci il giorno dopo, e senza rischiare che i loro sforzi benintenzionati facciano saltare l’intera baracca. Quelli che vogliono cambiarlo del tutto possono provare a vincere il congresso e ottenere la fiducia degli elettori e del Parlamento, e magari non fare come l’ultima volta.

Francesco Costa

Vicedirettore del Post, conduttore del podcast "Morning". Autore dal 2015 del progetto "Da Costa a Costa", una newsletter e un podcast sulla politica americana, ha pubblicato con Mondadori i libri "Questa è l’America" (2020), "Una storia americana" (2021) e "California" (2022).