Camminare

«Cammin facendo…» era l’intercalare col quale la nonna Giulia Vitale riprendeva fiato, e riordinava le idee, quando mi raccontava le storie per addormentarmi. Accoccolata vicino al mio letto, con la cagna lupo Penelope ai piedi, nella sua grande casa di Firenze, dietro la Questura, si sentiva puntualmente chiedere dalla mia vocetta irrimediabilmente sveglia: «Facendo cosa?» Questo la faceva innervosire. Per lei sembrava ovvio che il tempo si facesse trascorrere camminando. Ma il cammino tornava anche in altre sue espressioni. Per dire che una cosa andava trattata con pazienza, nei tempi giusti, diceva: «Cammin, cammino». Quando la facevo arrabbiare, invece, mi mandava via con un brusco: «Camminaaaa!».

Fu lei che, avrò avuto quattro anni, mi portò, in un tiepido pomeriggio novembrino, a fare per la prima volta quella camminata che sarebbe diventata per me la “Passeggiata per antonomasia”, finché abitai con i miei genitori in quell’appartamento sopra i tetti, nella via che prendeva il nome dal maestro sodomita di Dante, alla periferia nord della città.

La strada sale dolcemente, tra villini inizio Novecento, e si interrompe difronte a un alto muro di un rigoglioso parco ai piedi della collina di Fiesole. Sulla sinistra si scende di pochi passi fino al torrente Mugnone, dove c’era, e ancora c’è, il solitario capolinea del malinconico autobus numero uno e finisce ufficialmente la città. Una strettoia, quasi una gola di sbocconcellati muri di grigia pietra con dietro alti cipressi (di quelli che pochi, come il pittore Ottone Rosai, hanno saputo rappresentare con poesia), immette nella vecchia via Boccaccio che, costeggiando il fiume, inizia a salire in ampi tornanti.

Salendo, a sinistra, oltre il Mugnone, la via Faentina, nascosta dalle case e dagli alberi e, sullo sfondo, il dolce e scuro Monte Morello, con le sue antenne punteggiate di luci intermittenti e l’edificio bianco a vetri del Sanatorio. Più avanti, in direzione del cimitero di Trespiano, come candidi funghi abbarbicati nelle fragile roccia, le ville irraggiungibili, stile Frank Lloyd Wright, del suo seguace fiorentino Ricci.

Troneggiava invece sulla destra, la collina di olivi e cipressi sparsi in un innaturale prato all’inglese, sormontata da quella che chiamavamo la Villa. Là, già in alto rispetto alla città, isolati e con l’acqua corrente del fiume a portata di mano, si sarebbero rifugiati, per sfuggire alla peste del 1348, dei giovani e annoiati buontemponi che, per passare il tempo, si raccontarono le novelle tramandateci dal Decamerone di Giovanni Boccaccio. Su quel fiume, il povero Calandrino cercò invano la Pietra Filosofale, mentre Buffalmacco e gli altri amici burloni lo lapidavano, fino a Porta San Gallo, fingendo che fosse diventato invisibile.

Su quella collina, secondo le istruzioni emergenziali del babbo, avremmo dovuto rifugiarci anche noi, il 4 novembre 1966, nel caso le acque limacciose dell’Arno non si fossero arrestate, prima della ferrovia, in via Masaccio e il vicino Mugnone, che aveva rotto in più punti gli argini, ci avesse intrappolato con una “manovra a tenaglia”. Quella notte, in un silenzio irreale, rotto soltanto da qualche sirena, vegliammo al lume di candela pronti a seguire Boccaccio.

Per anni, chissà quante volte?, ho precorso in su e in giù quella strada, fino a San Domenico, a volte su fino a Fiesole. Durante l’università, quasi tutti i pomeriggi, prima di mettermi a studiare, salivo la collina e mi immergevo in quel concentrato di Toscana, guardando poi Firenze dall’alto: dalla terrazza dinanzi alla Badia Fiesolana, un capolavoro dell’architettura romanica, fatta di marmi bianchi e verdi scuri iscritti nei mattoni, dove allora predicava il coraggioso e appassionato padre Ernesto Balducci. Quella era la sosta che dava un certo senso metafisico alla camminata, soprattutto in autunno, guardando il precoce tramonto.

Calpestando le pietre levigate dal tempo di quella strada poco frequentata, spesso coperta da un tappeto di larghe foglie di platani, percepivo un po’ alla volta il passare delle stagioni. Dopo i primi tornanti, le gambe andavano quasi da sole e la fantasia superava i muri e i cancelli, mettendo assieme con la coda dell’occhio le cime degli alberi. Mi allontanavo e riavvicinavo a Firenze in due ore. Quelle camminate eran come false partenze. Andando su e giù per la vecchia via Boccaccio, macinando tutti quei chilometri, mi son passati velocemente gli anni, prima di trasferirmi a Varsavia e poi a Milano. Cammin facendo mi son fatto adulto, ma non sono riuscito a diventare invisibile.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).