L’altra faccia della luce

I giapponesi chiamano con il termine “komorebi” la luce del sole che filtra attraverso gli alberi. Bruno Munari diceva che tutti gli ideogrammi di Alberi sono uguali, anche se gli alberi sono diversi. Secondo lui bisognerebbe farne di più lunghi (di ideogrammi) dovendo dire “pino”, o di più cicciotti per “faggio” o “quercia”, e con una texture diversa per “betulla”. Nei suoi acquarelli faceva passare il sole giallo tra gli alberi: un segno spiazzante di luce che toglieva e spostava il fuoco dal racconto all’astrazione.

Nella cuspide superiore (oggi conservata nel San Diego Museum of Art) della pala centrale dell’Incoronazione della Vergine (1330 ca.) dipinta da Giotto per l’altare della Cappella della famiglia Baroncelli (nella Basilica di Santa Croce a Firenze), e oggi esposta nel Museo degli Uffizi, troneggia Dio con la barba bianca e, sotto di lui, sguazzanti nell’oro, ascendono sei variopinti angeli che lo guardano tenendo in mano specchietti neri, come si fa per un’eclisse di sole: la luce divina sarebbe anche per loro troppo accecante.

L’arte è soprattutto luce. Il pittore francesce André Derain (1880-1954) diceva che “la luce è la sostanza della pittura”. Senza luce non esisterebbe la pittura. E Le Corbusier sosteneva che l’architettura è “il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”.
Giotto rappresentò magnificamente il fatto che la luce è l’inizio di tutto, della Vita. In Genesi/Nomi (1,3), è scritto: “Dio disse sia fatta la luce e la luce fu” (“Vayomer Elohim yehi-or vayehi-or”). Nel nulla del buio si fece strada la luce della vita.
Nella sua Qabbalàh (XVI sec.), Isaac Luria sosteneva che un’iniziale “rottura dei vasi”, contenenti la luce delle emanazioni divine, avrebbe provocato la dispersione nel mondo delle scintille di luce, l’esilio del popolo e della stessa presenza divina (la Shekinah).
Nel polittico Visioni dell’aldilà (1500-1503 ca) di Hieronymus Bosch, (esposto nel Palazzo Grimani a Venezia), le anime nude salgono a zig zag come leggere farfalle, trasportate da coppie di angeli, verso il cielo ed entrano in un cono tronco d’ombra che dalle tenebre li traghetta verso la luce abbagliante. Una galleria al fondo della quale sta la luce assoluta del Paradiso. All’inizio e al termine del nostro percorso c’è la luce.

Prima dell’invenzione delle lampadine, gli scrittori, i poeti, i filosofi, gli scienziati, i musicisti, quando calava la notte, scrivevano e leggevano alla flebile luce delle candele. Ho sempre cercato di immaginarmi come fosse possibile scrivere in quell’oscurità: le parole o le note venivano vergate sulla carta in una luce incertissima. Per questo, forse, al momento di scrivere, gli antichi dovevano avere già tutto ben chiaro, prima di fissarlo sulla carta nella semioscurità del loro studio. Tra la creazione e il pensiero e la loro traduzione sulla carta, per poterli comunicare in modo stabile agli altri, bisognava attraversare una precaria zona di luce e ombre. E gli occhi si consumavano nella lettura, strizzandosi nello sforzo di mettere a fuoco le lettere o le note.

Il rischio di abbagli era alto. Nella caverna, che descrive Platone nella Repubblica, gli uomini “non possono che vedere altro che delle ombre, quelle proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta di fronte a loro” (515a). In questa sorta di cinema primordiale la luce è incerta e ingannevole e induce gli uomini a prendere lucciole per lanterne, illudendosi che la Verità siano quelle ombre che vedono sulla parete. Filosofia è imparare, anche dolorosamente, a guardare in faccia la luce e conoscere la Verità. Il buio e la penombra sono ignoranza, anche se comoda. La luce è Maturità: “Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.

Per questo motivo la luce fu scelta come emblema dell’Illuminismo, del cosiddetto Secolo dei Lumi (e poco importa qui se esso non mancò, comunque, di produrre abissi di tenebre). Immanuel Kant scrisse nella Risposta alla domanda: Che cosa è l’illuminismo? (1784): “Abbi il coraggio di servirti della propria intelligenza. È questa l’essenza dell’illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini rimangono volentieri minorenni per tutta la vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori». La luce è appunto intelligenza: un mezzo fondamentale per comprendere, vedendoci chiaro. Ma è meglio diffidare di coloro che si autodefiniscono “illuminati”.

L’ONU ha decretato che il 2015 fosse l’Anno Internazionale della Luce. Nel giugno del 2014 la Galleria d’Arte Moderna di Torino dedicò un interessante evento proprio alla luce, mettendo in dialogo le opere dell’artista contemporaneo Ettore Spalletti (1940), presentate nella mostra Un giorno così bianco, così bianco, e il famoso dipinto di Michelangelo Merisi da Caravaggio Il ragazzo morso dal ramarro (1593-1594). Ad esse fu affiancato un ciclo di conferenze dedicate alla relazione della luce con la filosofia (Armando Massarenti), la natura (Massimo Inguscio), la fotografia (Federico Scianna) e l’architettura (Michele De Lucchi).

Una riproduzione di quell’abbagliante dipinto di Caravaggio stava sulla parete del soggiorno dell’abitazione di una simpatica zia di mia madre che si chiamava Lucetta ed era molto fotogenica. Gestiva un piccolo negozio di paralumi: in velluto, tela, cartapecora. Gli abat-jour che avevamo in casa, con i suoi paralumi, non servivano praticamente a niente: lasciavano passare soltanto un poco di luce da sotto e un piccolo cono luminoso da sopra. Per il resto, sembravano spandere buio. Così, fin da piccolo, ho sempre avuto in antipatia le lampade che schermano troppo e non illuminano: non esaltano la potenza della lampada, ma si bevono, come una carta assorbente, gran parte della luce.

Ho sempre amato invece le luminarie delle feste di paese: fili di piccoli punti di luce che congiungono le case come esili ponti attraversanti le strade. Quelle lucine uniscono per poche ore le abitazioni e le genti del paese. Sempre a Torino, diciotto anni fa, ebbero la brillante idea di commissionare, ai migliori artisti, luminarie per rallegrare le strade e le piazze nel periodo natalizio. A Milano invece, nonostante sia una delle capitali mondiali del design, le luminarie sono delle spelacchiate e tristi collane di lampadine, quando non presentano bizzarre forme da adobbo di alberi di plastica. Il Natale è luce che rompe il buio del lungo inverno, e infatti specialmente nei paesi del Nord le lampadine e le candele brillano ovunque nelle strade e sui davanzali delle finestre.

Anche nell’abisso del male, una piccola luce serve a ricordarci una seppur tremolante speranza: nel bellissimo spettacolo del Teatr Stary di Cracovia, Nastazja Filipowna (1977), tratto dall’ultimo capitolo dell’Idiota di Fëdor M. Dostoevskij, il regista polacco Andrzej Wajda (che poi lo traspose anche per il cinema con l’attore giapponese Tamasaburo Bando: Nastazja, 1994) allestì una semplice scena dove i due protagonisti, il principe Myškin e Parfen Rogožin, discutono nella semioscurità attorno al cadavere di Nastas’ja/Nastazja, rischiarati soltanto da una candela davanti a un’icona. Un piccolo segno luminoso che sta a ricordare l’esistenza di una, seppur flebile, alternativa al male e, allo stesso tempo, la sua potenza.

Mia madre ricordava che quando, durante la guerra, veniva bombardata Firenze, suonava la sirena dell’allarme e la lampada, che illuminava il tavolino sul quale studiava, si spengeva all’improvviso. Da quel momento c’era solo buio e paura. La luce tornava dopo ore, a volte dopo molti giorni: a un certo punto non tornò più, fino alla Liberazione. Molte persone hanno della guerra la memoria del buio, dell’assoluta mancanza della luce, non soltanto in senso drammaticamente metaforico.

Il buio può avere un odore. Anch’io, ad esempio, ricordo che nel 1966, quando ci fu l’alluvione dell’Arno, per diversi giorni rimanemmo senza luce e soltanto le candele ci permettevano di vedere qualcosa. Il babbo scherzava e diceva che era come fossimo tutti entrati in un dipinto di Georges de La Tour. Di quelle tristi giornate di novembre ricordo proprio il buio e il tanfo di muffa. Quelle due sensazioni (visiva e olfattiva) mi si confondono ancora e, quando viene a mancare la luce in casa, il mio cervello mi fa sentire immediatamente la puzza di buio-fango. Per contrasto, la luce mi sa di pulito e sano (forse è per questo che, negli ospedali, la luce sta quasi sempre copiosamente accesa?).
Esiste, infine, un’altra faccia della luce. Ce lo segnala lo psichiatra Ronald D. Laing (nella poesia 42 di Mi ami?, 1976):

«Perché giaci sul letto sfatto
con un’aria da matto
in un mattino nebbioso e gelato?
l’altra faccia della luce
mi sembra alquanto truce…».

Sarebbe interessante saper cogliere, descrivere e riprodurre artificialmente questa sorta di “ombra della luce”: una luce che spesso non si vede ma c’è. Una luce psichica. Perché esistono tante luci.

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Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).