Lasciare un’impronta

L’impronta è il modo più ancestrale di dar luogo a una forma: imprimere su un supporto materiale un segno più duraturo di una traccia, ottenere il puro calco di un oggetto, prima di ogni invenzione creativa.
Lo storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman nel suo libro più originale, La ressemblance par contact: Archéologie, anachronisme et modernité de l’empreinte, 2008 (traduzione italiana La somiglianza per contatto, Bollati Boringhieri 2009), ricostruisce, attraverso la storia dell’arte, le varie manifestazioni di questa pratica che mostra sia il contatto (ad esempio: il piede che sprofonda nella sabbia), sia la perdita del contatto (l’assenza del piede). L’impronta e la traccia parlano infatti di qualcosa che ha lasciato un segno e ora non c’è più. Grazie a esse si può ricostruire un passaggio che è stato fermato nel tempo e nella materia, seppur parzialmente e, spesso, instabilmente. Una parte per il tutto: la traccia è il particolare che contiene, a saperlo leggere, l’ordine e il significato totale. Come gli indizi attraverso i quali, ad esempio, si può risalire alla firma di un crimine. O anche alla firma mancante di un’opera.

Il medico e appassionato d’arte Giovanni Morelli, negli anni settanta dell’Ottocento, propose di attribuire i dipinti utilizzando come indizi i particolari anatomici delle figure. Ogni pittore lascia infatti, per lo più inconsciamente, la propria traccia nel modo in cui raffigura una particolare parte del corpo: bisogna scovarla, riconoscerla e catalogarla. Questa pratica, come Carlo Ginzburg mostrò in un bel saggio (Spie. Radici di un paradignama indiziario, Einaudi 1979), influenzò Sherlock Holmes e anche Sigmund Freud. Siamo diventati da allora tutti segugi: risaliamo a tentoni dal frammento e dalla traccia al “colpevole“. Forse è per questo che i libri polizieschi vanno così di moda: mettono in pratica la nostra comune attività conoscitiva. In un mondo fatto di tracce, viviamo di tentativi per approssimarci alla verità. Del resto, uno dei libri fondativi della modernità, gli Essais, cioè I Saggi di Michel Eyquem de Montaigne (1580), si intitola appunto “tentativi“: la conoscenza si raggiunge “saggiando“ varie ipotesi, provando varie piste che partono da tracce e impronte.

Occorre imparare a leggere le tracce, risalendo dall’impronta all’oggetto (ormai assente) che l’ha prodotta. Nella tracce è imprigionato un mondo che va ritrovato risalendo all’origine. Le prime forme d’arte furono dei calchi sulle pareti delle grotte: il tentativo di eternare un gesto e una presenza; l’affermazione di un Io che ci lasciava un segnale del suo passaggio. L’arte d’oggi ha raffinato le sue tracce: Marcel Duchamp ci ha lasciato Coltivazione di polvere (1920), Lucio Fontana i suoi tagli nella tela. “Dio è nel particolare“ sosteneva Aby Warburg. Ed è dalle sue e dalle nostre tracce che bisogna ripartire.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).