C come cassetto

Il poeta franco-lituano Oscar V. de Lubicz Milosz, che se ne intendeva, sostenne che “l’armadio è tutto pieno del tumulto muto dei ricordi” (Amoreuse initiation, 1910; trad. it. L’amorosa iniziazione, Città armoniosa, Reggio Emilia 1979). Un’enorme armadio verde bottiglia con molti cassetti di varie misure troneggiava nel tinello di mia nonna. Spesso la cuoca li lasciava aperti. Da piccolo mi facevano paura: sembravano bocche spalancate pronte a mordermi. La tata Mafalda, regina della cucina, mi rassicurava, a modo suo: “Ma che cosa temi, sciocchino, guarda, li richiudo: sone le piccole bare delle posate che tornano al loro posto”. Quelle scatole di legno, accatastate come in un tumulo cimiteriale, suscitavano in me ancora più fosche fantasie. Sono passati molti anni prima di non provare più alcun disagio dinanzi a un cassetto. Probabilmente ho superato il trauma mantenendoli costantemente in disordine e stipandoci dentro alla rinfusa tante di quelle cose da renderne quasi impossibile la chiusura.

Il cassetto è una piccola cassa quadrata o rettangolare, con le pareti laterali basse e senza coperchio, munita di maniglia, che scorre orizzontalmente nelle guide dell’apposito scanno. Viene usato per riporvi oggetti vari. La sua invenzione si fa risalire al XV secolo. Allora, nell’assemblaggio delle tavole, raramente veniva usata la colla (colla animale). In genere le assi venivano chiodate, ma soprattutto incastrate con vari sistemi: quello del tenone e mortasa, quello a canale e linguetta; successivamente, quello a coda di rondine.

Molti scrittori, nelle loro opere, hanno attribuito i significati più disparati a cassetti, cassapanche, armadi, dando loro caratteristiche e connotazioni sempre diverse. I cassetti che contengono tantissime cose, gli armadi con i loro ripiani, le cassapanche con il loro doppio fondo, sono oggetti che si caricano di una forte valenza psicologica segreta. Dietro questi oggetti si celano spazi profondi, spazi di intimità di chi li possiede, spazi che non si possono mostrare a chiunque.

Il filosofo francese Gaston Bachelard ha dedicato proprio ai cassetti la parte centrale di una delle sue opere più importanti, La poetica dello spazio (La poétique de l’espace, 1957; trad. it. Edizioni Dedalo, Bari 2006), dove spiega, dal punto di vista fenomenologico, come lo spazio influenzi l’immaginazione poetica. I vari spazi della vita quotidiana (quello di una casa, dei suoi armadi, dei suoi cassetti) significano contemporaneamente luoghi dove riporre oggetti e spazi immaginativi, fecondi di rêverie. Analizzando le emozioni evocate dalla metafora del cassetto, Bachelard si rifà alle teorie di un altro filosofo francese, Henri Bergson, secondo cui i cassetti non sono altro che una serie di spazi entro cui sono confinati dei concetti. Bachelard cita il romanzo Monsieur Carre-Benoît à la campagne (1952) di Henri Bosco, dove il grande classificatore di quercia a cassetti è simbolo di un’intelligenza arida e schematica: “Il cassetto è il fondamento dello spirito umano”.

I cassetti sono (o almeno dovrebbero essere, anche se non è il mio caso) l’Ordine: la classificazione e l’organizzazione per compartimenti. La Filosofia e la Scienza lavorano, in un certo senso, per cassetti, sistemando e inscatolando la Natura e le Idee. Finché non interviene la razionalità dell’uomo, la Natura è un Caos senza cassetti. Però Cosmo e Caos, pur essendo in opposizione, sono vicini e compresenti. Questo aspetto lo ha rappresentato efficacemente Tullio Pericoli in alcuni suoi bellissimi paesaggi, “appoggiati” su sequenze di cassetti: Sotto il precipizio (1990); Treno (1990); Paesaggio agitato (1992); Tempo perduto (1994). Non è tanto frequente vedere nei quadri dei cassetti. Forse perché, per poterli ben rappresentare, occorrerebbe mostrarli aperti e questo concentrerebbe un’eccessiva attenzione su di loro.

Nel 1936 Salvator Dalí scelse la Venere come modella del bello ideale e fece una copia della celeberrima Venere di Milo, che si trova al Louvre. Secondo lui, l’unica differenza fra la Grecia classica e il presente è Freud, che scoprì come il corpo dell’uomo, che al tempo dei greci era puramente neoplatonico, oggi sia pieno di cassetti segreti che solo la psicoanalisi è in grado di aprire. L’ombra di Freud e delle sue teorie è stata sempre presente nella produzione daliniana. Nel 1938, Dalí fu presentato, a Londra, a Sigmund Freud da Stefan Zweig e dal magnate Edward James.

La Venere di Milo con cassetti (1936-1964) di Dalí, conservata nel Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, è in bronzo e pelliccia di ermellino ed è dotata di una serie di cassetti (meccanici), posizionati in corrispondenza del seno, del torace, dell’addome e del ginocchio sinistro. I seni sono semi aperti e dotati di un pomello di pelliccia.

Parlando dell’originale della Venere di Milo, André Breton, nell’Introduction au discours sur le peu de réalité (Introduzione al discorso sulla scarsità della realtà; 1927), sostiene che si tratta di un prodotto dell’attività onirica e della fantasia erotica privo di una reale finalità e inserito nel mondo concreto per far emergere i desideri inconsci a solo turbamento della ragione. Per Dalí, questi cassetti, che si prestano a un funzionamento meccanico, sono basati sui fantasmi e possono provocare atti inconsci (cfr. Salvator Dalí, Pensées et anecdotes, 1995; trad. it. La droga sono io. Aforismi e pensieri di un artista eccentrico e geniale, LIT, Roma 2007).

Secondo Conroy Maddox (Dalí, eccentric and genius, Taschen, Köln 1990), l’idea della Venere di Milo con cassetti, metafora già presente nel Secondo Manifesto Surrealista di Breton, del 1929, nacque appunto durante il soggiorno di Dalí in Inghilterra, dall’incontro con Freud. L’umano si trasforma in cassetto secondo l’ambiguità della traslazione linguistica della parola chest (letteralemente “torace”, ma anche “mobile”) che connota il chest of drawers, ovvero un mobilio tipicamente britannico. Il gioco di parole genera una confusione poetica che Dalí concretizza in quest’opera formidabile, ispirato dalla curiosa analogia linguistica.

Il tema del corpo umano a cassetti è una costante nella produzione artistica di Dalí, come nel disegno a matita, e poi stampa, La città dei cassetti (1936) e il celebre dipinto La giraffa infuocata (1936-1937), conservato al Kunstmuseum di Basilea.

Il dipinto rappresenta, sullo sfondo di un paesaggio desolato, una grande figura femminile in primo piano.
 A destra, in secondo piano, un’altra donna leva in alto un drappo rosso, simbolo di violenza. Entrambe le figure scheletriche sono sorrette da stampelle e mostrano simboli fallici. Ma sono i cassetti che si aprono, inquietanti e vuoti, sia in corrispondenza del seno sia lungo la gamba destra della donna in primo piano, a costituire la simbologia psicoanalitica più evidente. I cassetti rappresentano i segreti e i problemi che gelosamente l’uomo custodisce; spetta all’artista, come a un ladro, il compito di aprirli e frugarvi dentro alla ricerca dell’essenza vera dell’uomo. Solo così l’inconscio diviene conscio, e l’uomo può pervenire a un equilibrio interiore.
 Si è detto che i cassetti rappresentano l’ordine. L’artista americano Joseph Cornell ha tentato mirabilmente di salvare se stesso e il suo mondo dal disordine e dal ciarpame inscatolando oggetti di scarto in teche ordinate nelle quali componeva dei surreali teatrini (cfr. Charles Simic, Dime-Store Alchemy. The Art of Joseph Cornell, 1992; trad. it. Il cacciatore di immagini, Adelphi, Milano 2005). Insaziabile, in una di queste scatole – Untitled (Aviary with Parrot and Drawers), del 1949 – ha voluto mettere anche tanti piccoli cassetti, una sorta di minuscolo armadietto, che circondano un variopinto pappagallo. I cassettini, sotto forma di scatolette, si ritrovano anche in altre sue opere e sono un invito ad aprirli per scoprire piccoli oggetti classificati.

È certamente un bel paradosso che proprio artisti che si rifanno a quel disordinato ed eccentrico movimento che fu il Surrealismo abbiano saputo rappresentare la magia ordinatrice dei cassetti, il loro subdolo nascondere e il fascino della scoperta del contenuto racchiuso al loro interno. Nel nostro linguaggio quotidiano si trovano espressioni malinconiche come “avere un libro nel cassetto”, per dire di un’opera, per le più svariate ragioni, rimasta inedita e, più poetiche, come “tenere sogni nel cassetto”, che non hanno nulla di classificatorio, ma ci dicono dei cassetti come contenitori di qualcosa che vorremmo tanto poter tirare fuori e realizzare.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).