Ripensando Pasolini

Ricordo ancora bene quel freddo 2 novembre di quarant’anni fa quando arrivò la notizia del ritrovamento a Ostia del corpo straziato di Pasolini (la foto fu poi pubblicata irrispettosamente da “L’Espresso”: allora c’eravamo meno abituati…). Ne rimasi fortemente impressionato, forse anche perché, dopo aver letto con rabbia, durante il liceo, tutti i suoi libri e ammirato i suoi film, lo avevo conosciuto di persona soltanto da un paio di mesi. La sera del 6 settembre di quel 1975, al Festival Nazionale dell’Unità, nel parco delle Cascine di Firenze, si era tenuto un acceso e affollato dibattito sui giovani e il Sessantotto con Pasolini (da poco riavvicinatosi, come molti di noi, al PCI), e il filosofo Cesare Luporini (che sarebbe diventato, proprio quell’anno, uno dei miei più amati professori all’università). In quello che sarebbe stato uno degli ultimi suoi interventi in pubblico, Pasolini fu quantomai apocalittico e provocatorio (lo trovate trascritto in fondo all’articolo). Dopo la fine del dibattito rimanemmo in un gruppetto di giovani a incalzarlo con le domande e confutare le sue tesi. Mi parve dolce e fragile, apodittico e aggressivo: certamente molto a suo agio in una situazione polemica come quella. Per lui il PCI era una sorta di àncora di salvezza in un mondo moderno decattolicizzato che gli faceva schifo e paura: “il Partito comunista è una specie di paese nel paese, una specie di paese pulito e morale in un paese sporco e profondamente immorale”. Gli dissi che non ero d’accordo, che quella concezione salvifica del partito politico mi faceva orrore, anche perché, aggiunsi strappandogli una specie di ghigno, era proprio quella di mio padre.

Pier Paolo Pasolini è stato, lo si capisce sempre meglio col passare degli anni, uno degli intellettuali italiani più importanti del dopoguerra. Era un genio multiforme: buon scrittore e poeta; ottimo regista (salvo l’ultimo film, per me inguardabile e discutibile ideologicamente, Salò le 120 giornate di Sodoma: ma La ricotta, del 1963, ad esempio, è davvero un capolavoro); eccellente polemista, anche se spesso non condivisibile. Molte delle sue analisi si sono dimostrate giuste, ma parecchi dei suoi atteggiamenti e umori sono proprio quelli che hanno rappresentato la rovina della sinistra. Pasolini però li incarnava con appassionata incoerenza e grande tensione critica. Per questo, se dovessi suggerire un libro dal quale partire per ragionare su Pasolini, sceglierei: Pier Paolo Pasolini, Povera Italia. Interviste e interventi, 1949-1975, a c. di Angela Molteni, Kaos edizioni 2013. In quei testi, a ruota libera, c’è il Pasolini più autentico. In particolare, l’intervista che concesse all’amica Dacia Maraini, I ricordi come i sogni (“Vogue Italia”, maggio 1971), dove, tra l’altro, spiega che: «L’interesse per il cristianesimo è nato dopo la guerra, sotto l’incubo quotidiano della morte, a contatto con il mondo contadino di Casarsa. Attraverso l’estetismo ho riscoperto la religione».

Pasolini aderí e nello stesso tempo fu fortemente critico nei confronti del movimento politico sociale nato nel Sessantotto. Dette la sua disponibilità ma non mancò di far sentire il proprio dissenso (come quando esaltò, piuttosto demagogicamente, i poliziotti, figli di povera gente, che manganellavano a sangue i ragazzi, figli dei borghesi). La sua personalità vulcanica, la sua programmatica mancanza di coerenza, ne fecero un personaggio scomodo politicamente, e per la sinistra, imbarazzante ideologicamente. Nei suoi testi polemici, soprattutto gli Scritti corsari (P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975), traspare una costante che lo rende così popolare oggi, anche a certi settori culturali della destra: il rifiuto radicale della modernità e il rimpianto nostalgico di un mondo contadino che è del tutto scomparso. La nostalgia per quel mondo e per i suoi valori lo porta a darne un’immagine idilliaca, e quanto mai irreale, che soltanto il riconoscimento della sua violenza intrinseca lo allontana da posizioni sdolcinate come quelle di Ermanno Olmi ne L’albero degli zoccoli (1978).

Assai acuta è però l’analisi di Pasolini sul moderno consumatore-infantile, prodotto della fine della civiltà contadina: «Il monoteismo contadino dopo esser stato per tanto tempo modulo e strumento di potere viene buttato a mare dal potere industriale. Strano! Un modello di un “consumatore” non può piú essere un modello di dignità paterna! Il consumatore deve essere un uomo leggero, infantile, volubile, curioso, giocherellone, credulo. Il compratore è sostanzialmente una fanciulla. S’infrange il monoteismo col padre che dà, non prende; s’infrange con i suoi domini storici della piccola borghesia occidentale e rossa, lasciando il posto a un politeismo dei Beni donati da un Padre che non vuol farsi imitare?» (P. P. Pasolini, Che fare col «buon selvaggio» (1970?), in «L’Illustrazione italiana»).

L’articolo Gli italiani non sono più quelli (sul Corriere della Sera del 10 giugno 1974), scritto dopo il referendum sul divorzio del 1974, chiarisce come Pasolini analizzasse la realtà italiana con categorie polemicamente infantili: nella vittoria delle posizioni favorevoli al divorzio, egli vede l’ennesimo sintomo della diffusione dei valori del consumo e dell’edonismo, il frutto del radicamento di certe ideologie neocapitalistiche, e quindi egoistiche, di matrice americana. L’odio di Pasolini per la Democrazia cristiana, che sbrigativamente identifica in toto con il potere, è quello di chi pensa che una forza d’ispirazione cattolica avrebbe dovuto preservargli il mondo contadino del Friuli della sua giovinezza, e che invece ha tradito per dare spazio a una società consumistica e volgare. Il vuoto del potere in Italia (Corriere della Sera, 1° febbraio 1985), che prende a pretesto la scomparsa delle lucciole, costituisce il testo più esemplare della deriva alla quale era giunto il pensiero critico di Pasolini. Un testo intellettualmente sconcertante. Ci si trova di fronte a una Medusa della nostalgia e dell’antimodernismo. La sua critica del presente, riletta oggi, appare come il prodotto di una visione del mondo che si giustifica soltanto nei sogni di un artista. Di questi scritti si salva infatti soltanto la forma. Come nota Alfonso Berardinelli «il fatto è che per Pasolini i concetti sociologici e politici diventano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo» (Prefazione a P. P. Pasolini, Scritti corsari (nuova edizione), Garzanti, Milano 1990).

Pasolini vide bene che tutto stava diventando un gioco. Un appunto del suo romanzo postumo Petrolio (P. P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992), si intitola significativamente Il gioco (e si trova alle pp. 395-97). Pasolini vi scrive che ci sono persone per le quali la fine di ogni illusione porta alla scoperta del «nulla sociale», alla «sensazione esilarante che tutto ciò non sia che un gioco». Il che non implica la fine dell’impegno, la scelta dell’ascesi, ma anzi una partecipazione più fitta, un nuovo pragmatismo, la riaccettazione totale della realtà nel momento in cui è irrisa. La realtà non è più vista come un insieme di bene e di male, non si divide da una parte nella società conformista che segue l’ordine voluto dal capitalismo e dall’altra in coloro che si oppongono credendo ancora nella lotta di classe: «La realtà comprende e integra tutte e due queste parti, perché la realtà, lei, non è manichea, non conosce soluzioni di continuità».

L’autore di Ragazzi di vita e Accattone è rimasto intrappolato dai drammi familiari della sua adolescenza (anzitutto il rapporto di odio con il padre) in una sorta di perpetuo stato fanciullesco. Quello stato che il Pasolini critico leggeva, ad esempio, nell’opera di Giuseppe Ungaretti, la cui poesia viene bollata come «di una totale innocenza, spudorata, caotica, equivoca, bambina, ambigua, demoniaca, ingenua, innaturale, incompleta» (in «Il caos», 13 dicembre 1969). Ma cosí sono proprio le belle poesie di Pasolini. Del resto, egli non credeva più né nella poesia né nella rivoluzione: «Non posso più credere alla rivoluzione, ma non posso non stare dalla parte dei giovani che si battono per essa. È già un’illusione scrivere poesia, eppure continuo a scriverne, pure se per me la poesia non è più quel meraviglioso mito classico che ha esaltato la mia adolescenza».

Il testo teatrale Affabulazione (1966) fu scritto quando Pasolini aveva quarantaquattro anni e si sentiva «vecchio e malato» (costretto all’immobilità da una grave forma di ulcera e in crisi nel rapporto con l’attore Ninetto Davoli). Mise in scena se stesso nella figura di un industriale che sogna di ritornare bambino e prova un’oscura attrazione per il figlio. Vorrebbe attraverso il giovane, ritrovare la felice condizione dell’adolescenza. Finirà con l’ucciderlo. La tragedia di Pasolini fu la fine della gioventú e l’impossibilità di poter continuare a dialogare con i «ragazzi».

L’intervento di Pier Paolo Pasolini al Festival Nazionale dell’Unità di Firenze (16 Settembre 1975)
… In questo che si configura un po’, mi pare, come un dibattito, anziché intervenire inizialmente dicendo alcune cose che secondo me sono assolute o rappresentano un discorso filato e completo, vorrei sottoporre proprio alla vostra possibilità di critica e alla vostra possibilità di intervento, anziché un discorso filato, un discorso drammatico, anziché una serie di osservazioni, una contraddizione. Una contraddizione che è nel mio modo di giudicare, di analizzare la realtà che mi circonda, quindi compresi i giovani. Da molto tempo vado dicendo che la società italiana, e quando parlo di società italiana badate bene intendo sempre riferirmi soprattutto al mondo dei giovani, è omologata, si sta omologando… Si stanno distruggendo le varie culture particolari, i vari universi regionali, che rappresentano le culture reali, il pluralismo su cui si è sempre fondata l’Italia… Vado ripetendo da molto tempo che tale omologazione finora si presenta come distruttrice. La sua prima qualità è quella di distruggere dei modi di essere, delle qualità di vita, quelli che io chiamo dei valori, e quindi dei comportamenti. Vado da molto tempo parlando di un nuovo potere, che non è più il potere clerico-fascista, non è più il potere di un Franco… È un nuovo potere, che probabilmente ancora non è stato ben definito, e che in realtà io identificherei con un nuovo modo di produzione… A questo punto, non essendo io un agrimensore, e anzi essendo un dilettante per quel che riguarda l’economia politica, sarei molto felice che qualcuno di voi intervenisse, appunto in questo particolare del mio discorso, cioè di identificazione del nuovo potere con un nuovo modo di produzione. Questo nuovo modo di produzione è caratterizzato, secondo me, da tre elementi: la grande quantità, il superfluo, e l’ideologia edonistica. Oggi cioè si produce in quantità enorme, come non si è mai prodotto in nessuna epoca della storia umana. Questo significa che tra oggi e tutto il resto della storia umana, c’è un salto di qualità. Se non altro nell’enorme quantità dei prodotti, e vedete bene come a questo punto la quantità diventa qualità. Il secondo elemento caratterizzante del nuovo modo di produzione, è il superfluo. Infatti, ciò che caratterizza l’ondata di benessere che ha invaso l’Italia, trasformandola radicalmente, è formato soprattutto di beni superflui. Prendo un esempio solo, nella mia goffaggine di letterato che non è affatto un agrimensore… Prendiamo l’automobile; per un certo periodo l’automobile può essere stato considerato un bene necessario, non un bene superfluo, perché serviva a unire il nord al sud, serviva a unire i due posti di lavoro lontani, eccetera eccetera… A un certo momento l’automobile si è trasformata in un bene superfluo, cioè serve a andare da casa all’ufficio, risponde all’unico perbenismo di aprire un autobus, oppure soprattutto a fare dei week-end come i picnic, ecco… Terzo elemento caratterizzante è la funzione edonistica. Cioè, l’unico valore proposto dal consumismo è l’edonè, il piacere. Il piacere del consumare. L’essere felici in quanto consumatori. È questa l’ideologia ancora inarticolata, ancora forse inconscia, ancora non definita, di questo nuovo potere che consiste nel nuovo modo di produzione. Dunque, questo nuovo potere o nuovo modo di produzione, ha omologato, cioè praticamente ha unificato l’Italia per la prima volta. Voi forse mi accuserete di essere italianista, di essere chiuso un po’ottusamente nell’àmbito italiano. Sì, forse avete ragione, ma purtroppo l’Italia rappresenta un caso molto particolare, e quindi mi sembra anche giusto puntare la nostra analisi proprio sull’Italia, in quanto italianisti, in quanto persone che si occupano del problema italiano. Infatti, i grandi paesi capitalistici europei hanno avuto almeno altre tre unificazioni nazionali; hanno avuto l’unificazione monarchica, per non parlare poi dell’unificazione dovuta alla Riforma, a Lutero; hanno avuto la unificazione della rivoluzione borghese, e scusate se è poco, e poi soprattutto hanno avuto la grande unificazione della prima rivoluzione industriale. L’Italia non ha avuto tutte queste unificazioni, è arrivata assolutamente disunita agli anni ‘60. L’unificazione italiana è una unificazione puramente militare e burocratica, in cui ha avuto modo di affermarsi appunto il clerico fascismo, cioè un’accentrazione violenta del potere. Clerico-fascismo che non ha affatto unito gli italiani, il siciliano è rimasto siciliano, il piemontese è rimasto piemontese, le culture particolari sono rimaste culture particolari. Non c’è stata unione in Italia. La prima vera unificazione italiana è questa appunto di questo nuovo potere, cioè di questa nuova produzione che caratterizza la civiltà dei consumi. Tutto questo attualmente è avvenuto soprattutto a livello esistenziale e inconscio, secondo me; cioè, le scelte politiche degli italiani sono quelle classiche, quelle che si hanno da trent’anni a questa parte. C’è chi sceglie il partito comunista, chi il partito socialista, chi il fascista, eccetera eccetera. La scelta nella coscienza è ben differenziata, però sotterraneamente si è venuto a formare una specie di terreno franco, di terreno comune, livellato e omologato, a livello esistenziale appunto, dovuto a questo nuovo potere, che impone la sua ideologia edonistica. Ideologia edonistica che, è inutile che ve lo dica, io considero spaventosa, considero atroce stupida e volgare. Ebbene, questa è la prima parte del mio discorso. È qui che interviene il momento drammatico, il momento che sottopongo alla vostra attenzione. Detto tutto questo, seconda sorpresa… C’è poi quel risvolto che è tipico della storia… Càpito al festival l’anno scorso di Bologna, o vengo al festival dell’Unità qui a Firenze, e mi rendo conto che tutto quello che ho detto e che ho ripetuto qui, ecco mi sembra molto logico, continua a sembrarmi molto logico… Ed è appunto qui la contraddizione… Ecco, tutto è violentemente contraddetto. È contraddetto da una realtà, cioè dalla realtà per lo meno di coloro che hanno votato, o meglio ancora sono iscritti al partito comunista, o intervengono al festival dell’Unità… Cosa che mi ha fatto scrivere che in realtà il partito comunista è una specie di paese nel paese, una specie di paese pulito e morale in un paese sporco e profondamente corrotto e immorale. Questa è l’impressione, è un’apparizione quasi miracolosa di una realtà che, nel contesto generale della realtà italiana, m’è riuscita come sorprendente, e che io naturalmente abbia sempre seguìto e sia stato vicino alla classe operaia, ai poveri, e non frequenti e non conosco in fondo nemmeno bene la borghesia o la piccola borghesia italiana… Questa mia frase, paese nel paese, paese pulito nel paese sporco, è una frase, ripeto, che è un poco più che un’impressione, è quasi un verso, una cosa poetica… E, naturalmente, come tale si è prestata a degli equivoci… Si è detto che con questo io in qualche modo distacco, estraneo il partito comunista, e quindi l’enorme massa dei suoi votanti e dei suoi iscritti, dalla realtà italiana eccetera eccetera. Bene, io penso che in questa mia frase c’è qualcosa di vero, e come sempre nella verità c’è del bene e c’è del male… In che senso c’è del male in questa verità, in questa frase, in questa mia affermazione. In un senso, credo, forse inaspettato, il fatto per esempio che il partito comunista e la massa dei suoi iscritti, ed i suoi votanti, che rappresentano la parte sana della nazione, in un certo senso viene ad accentuare la spaccatura che c’è tra nord e sud. Questo paese comunista si trova soprattutto al nord, quasi al di sopra direi della linea gotica… È chiaro che questo non è né nelle intenzioni di nessuno di noi, né dei dirigenti del partito, né degli iscritti al partito. È un fenomeno, un fatto a sé che io vorrei constatare e analizzare e sottoporre alla vostra attenzione. Questa altra Italia… (si interrompe la registrazione, che riprende poco più avanti) … politica politica, una politica con connotati profondamente morali e moralistici; quindi ci si limiti a dire: bisogna amministrare bene e onestamente, e non analizzando spietatamente una situazione politica su cui poi intervenire e governare… Questi sono i pericoli che tu dicevi (c’era stata una domanda, ndr.). Quanto al momento invece positivo, ed enormemente positivo che c’è in questa frase, non mi dilungo perché ci intendiamo subito, non ho bisogno di esprimerlo, è un sentimento, e questo sentimento lo condividiamo tutti qui. È un sentimento di vitalità, per cui siamo qui a discutere… Ultimo elemento positivo, su cui vorrei concludere, sono proprio i giovani, e qui forse è bene mi allacci in parte con quello che diceva Luporini… Mentre nell’analisi cori cui ho esordito, ciò che mi traumatizzava, mi dava un profondo dolore, un avvilimento tale per cui ho esordito che avrei voluto andarmene dall’Italia, era proprio l’osservare quei fenomeni che vi dicevo prima nei giovani. Mi riferivo soprattutto a dove io vivo, cioè nel centro-sud, che mi appariva carico di fenomeni degradati, e lo sono infatti; degradati dalla società dei consumi, dall’ansia consumistica, abbrutiti, resi violenti, criminaloidi per tutto questo… quanto nella gioventù italiana mi è sempre apparso terrificante. In questo quadro terrificante, c’è evidentemente dell’eccezione, eccezione di singoli, eccezione di gruppi, c’erano dei gruppi radicali, c’è qualche socialista, ci sono dei cattolici di sinistra, si capisce, e poi soprattutto i singoli, perché un individuo è sempre libero di essere se stesso, di girare, di uscire al di là delle determinazioni sociali, politiche e storiche… Si può salvare nell’eccezione anche riguardando grandi masse di giovani, per esempio nel centro-sud farei l’eccezione di tutta la città di Napoli, dove la gioventù proletaria e sottoproletaria è rimasta se stessa, è rimasta fedele e non è soggiaciuta, forse anche per delle ragioni negative, a questa imposizione violenta e totale e volgare del consumismo. Un’altra grande eccezione, sono proprio i giovani iscritti al partito comunista italiano.E per una ragione, secondo me, anche abbastanza semplice, e su questo semmai discuteremo… Parlavo di nuovo potere, che deriva da un nuovo modo di produzione. Questo nuovo potere produce una nuova cultura, e questa nuova cultura è la causa di questa atroce acculturazione che rende tutti uguali, e nel modo peggiore e nel senso peggiore della parola… Però i giovani comunisti non possono soggiacere a questa acculturazione. Perché? Perché la loro cultura, la loro cultura marxista, la loro scienza marxista – e non voglio dire che ogni iscritto al partito comunista, giovane, sia un grande conoscitore di Marx o di Lenin – ma basta un minimo, basta la scelta, basta la vitalità di questa scelta, perché in realtà egli, pur conoscendo poche frasi, poche parole, e abbia letto alcuni libri, intuisca poi tutto il punto… Nella cultura di un giovane comunista, nel suo modo di vedere il mondo, è evidente che c’è il rifiuto di quella cultura borghese, sia nel senso classico della parola, che comprende il vecchio laicismo, e il vecchio clerico-fascismo, sia nel senso nuovo della parola, che ho cercato di definire esordendo… Nel tempo stesso è chiaro che un giovane iscritto al partito comunista, non sa più cosa farsene in realtà dell’arcaica cultura popolare, che un letterato come me può rimpiangere… Io dicevo che la civiltà consumistica ha distrutto le culture particolari. Ora queste culture particolari reali, di cui vi parlavo prima sono soprattutto culture arcaiche e contadine, i cui valori sono stati distrutti… E io piango sulla distruzione di questi valori, ma non tanto perché sono stati distrutti, ma quanto perché sono stati sostituiti da valori che per me sono negativi, cioè i valori del consumismo. Ora è chiaro che un iscritto al partito comunista è al di là del rimpianto della distruzione di valori di una cultura popolare arcaica. È chiaro che egli pretende dalle masse popolari un nuovo tipo di cultura… Voglio dire che la cultura vissuta da un giovane iscritto al partito comunista è proiettata al di là, sia della cultura borghese così come è stata quindici anni fa e così com’è da dieci anni, sia al di là delle vecchie culture popolari. Quindi è una cultura libera, che fa sì che intorno a me, coi giovani comunisti con cui parlo, cogli questa vitalità, questa novità, questo modo di essere reale, che mi fa pensare che, forse, il quadro che mi son fatto dell’Italia può essere contraddetto. (Pasolini conclude il suo intervento, prosegue il giro di parola: giovani che in parte contestano le sue affermazioni “apocalittiche” sulla gioventù italiana, intellettuali come Cecchi, Luporini, ed altri interventi di studenti)…. io prima non ho fatto un discorso in questa direzione, perché per quel che mi riguarda l’ho trovato naturale, ovvio… Non so, un mio articolo, per esempio, scritto… e quindi non è che lo inventi adesso… scritto…dicevo queste cose che dicevo proprio adesso, ma poi mi chiedevo: fino a quando i giovani comunisti potranno difendere la loro dignità? Così finivo un articolo… cioè, difenderanno la loro dignità fin quando ci sarà questa istanza critica e autocritica. Perché è chiaro che anche loro, nella loro vita quotidiana, nella loro vita inconscia, a livello esistenziale, sono minacciati da quello che il ragazzo veneto diceva. Anzi, sono minacciati da cose ben più gravi, perché mi sembra che l’istanza di questo ragazzo veneto sia un pochino ritardata… Lui ha accentuato molto la scuola e quel certo autoritarismo scolastico, che è tipico se mai della mia generazione, più che della sua… Quindi non è tanto la scuola una minaccia, va bé si capisce, la scuola minaccia sempre… ma è appunto la nuova ideologia della civiltà dei consumi che minaccia i giovani comunisti… Quanto al giovane meridionale, mi fa l’accusa contraria, mi dice di essere pessimista… Le due cose si integrano, e mi aiuta a rispondere all’ultima domanda (sulla vittoria elettorale). Risponderò criticamente, e anche fuori di ogni ottimismo precostituito, di ogni euforia, perché l’ottimismo, la necessità della vittoria, eccetera eccetera vanno benissimo, ma poi, finita la domenica, ricomincia il lunedì… cioè cominciamo a ragionare come fosse il lunedì mattina anziché domenica sera. I voti del 12 maggio e del 15 giugno sono voti che mi hanno reso felice, sono stato felice come tutti, e come diceva Luporini la mia è una generazione eternamente sconfitta, finalmente c’è stata una vittoria e sono stato felice. Però questo fa sì che non rinunci alle mie capacità critiche…Voglio dire che i voti del 12 maggio e del 15 giugno mi danno una grande felicità e testimoniano di un momento positivo della gioventù italiana. Però, come ho già fatto e ho già detto in una analisi approfondita del voto, non posso non accorgermi che anche quei voti che io considero positivi, cioè il no al referendum e i voti ai comunisti il 15 giugno sono voti inquinati. E da dove sono inquinati? Sono inquinati da quel falso laicismo, e da quel falso progressismo, con cui il potere ammanta la sua ideologia consumistica. Cioè la televisione, tanto per fare un solo esempio, o anche la scuola, la televisione non è più una televisione clerico fascista. Voi alla televisione non vedete più processioni o noiosissimi discorsi di prelati. La televisione è un’educazione non più autoritaria e clerico-fascista, ma una educazione di carattere consumistico, cioè laico, di un laido laicismo consumistico. I modelli di vita che offre la televisione sono, per quanto laidamente, laici. Chi viene offerto alla vostra indicazione? Non certamente un santo eremita, o un prete che fa delle belle prediche. Viene esposto alla vostra indicazione un giovane cretino e una giovane cretina. Laici. Che godono la vita. La cui religione è il picnic, il weekend, la macchina, il profumo, il sapone, le belle scarpe, i blue jeans eccetera. Ecco quindi i voti del 15 giugno sono stati positivi anche per quanto di negativo c’è in essi, anche per quella propaganda che il potere ha fatto… In Italia, si capisce, perché ancora il nuovo potere italiano è rozzo, a gestirlo sono ancora delle persone peggio che arcaiche, preistoriche, come Fanfani eccetera eccetera. Quindi, è chiaro, non sono stati in grado di capire che si pestavano i piedi da soli, si davano la zappa sui piedi, attraverso la televisione. Non hanno capito che la televisione, così com’era, così invadente e consumistica com’era, avrebbe tolto loro dei voti. Ecco, allora, siamo ben chiari, cominciamo subito autocritica. Molti voti anche belli, positivi per noi, uomini realmente di sinistra che abbiamo fatto una scelta cosciente eccetera eccetera, sono inquinati da un laicismo e da un progressismo che noi non possiamo non condannare…., dal nuovo modo di produzione, cioè dalla nuova cultura e dal nuovo potere. È, questo modello del week-end, inconciliabile secondo me con il voto comunista. Per questo, all’interno di una critica che io muovo al… (il nastro si interrompe dopo questo frammento).

Nella foto Pier Pasolini sul set di Teorema, nel 1969. (ANSA/UFFICIO STAMPA PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI)

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).