Nel giorno della Memoria

Marcello era un ebreo livornese e faceva il bidello della nostra scuola. Uno spilungone con la barba rossiccia che veniva chiamato “il filosofo” per la somiglianza con il busto marmoreo di Marco Aurelio, che troneggiava nel corridoio vicino al suo stanzino, e per il fatto che ripeteva in continuazione: “dal caos nasce l’ordine”. Questo era il suo lapidario commento ai gabinetti sporchi, le aule abbandnate alle cartacce, le foglie che invadevano col vento l’androne della scuola, le notizie del mondo che ricavava dai fogli di giornale appallottolati.

La scorsa settimana è crollata, con grande fragore e polvere, una delle librerie della mia stanza. Era il settore, accanto a quello dedicato alla Polonia, dove stanno i libri sulla storia e la cultura ebraica (le due scaffalature, per forza di cose, in più punti combaciano o si sovrappongono).

Dovendo rapidamente risistemarli (si era formata una montagna cartacea che occupava il vano della porta fin quasi allo stipite) ho dovuto riordinarli. Così ho avuto l’occasione di riconsiderare tutti i libri acquistati negli anni e accumulatisi senza un vero disegno né progetto di studio. Disponendoli in fila, di costa, sul pavimento del corridoio, dopo averli finalmente spolverati, per poterli collocare sui nuovi e luccicanti scaffali di metallo, ho notato che in quel settore, come in altri della mia libreria, tutto sta assieme (letteratura, storia, geografia, filosofia, religione, arte, testimonianze, album fotografici). Ma sotto la categoria “ebraica” c’è una promiscuità particolarmente stridente. Per dirla senza troppo girarci attorno: nella mia libreria ci sono troppi libri sull’Olocausto e questi, mi pare, “soffocano” quelli di letteratura, poesia, arte, filosofia. Non è tanto una questione di numero di volumi, ma di gravità e tragicità degli argomenti. È come se i massacri mettessero in sordina tutto il resto. Ho avuto la sensazione di una sorta di tragica beffa: lo sterminio continuava a gettare un’ombra funesta su tutto il resto. È quasi come se i distruttori imponessero la loro opera, attraverso le testimonianze e le ricostruzioni storiche, le spiegazioni e le interpretazioni filosofiche (tutte però abbastanza insoddisfacenti). La cultura e la storia ebraica, la bellezza e la vita, sono schiacciate sotto il peso di quelle vicende di odio e morte.

Con il senno del poi tutto il bello del “prima” viene offuscato dalla tragedia del “poi”. Nell’interpretazione a posteriori si è arrivati persino a considerare i testi come “premonizioni”. È accaduto, ad esempio, a Franz Kafka e a Bruno Schulz le cui opere sono state lette, da alcuni, come “profezie” dell’Olocausto, schiacciando così i loro racconti sugli avvenimenti successivi.

Pesco dal mucchio di libri non ancora ordinati Charles King, Odessa. Splendore e tragedia di una città di sogno (2011; trad. it Einaudi, Torino 2013): una brillante ricostruzione della storia della bellissima città del Mar Nero, dalla sua fondazione, nel 1794, fino ad oggi. Una città fortemente caratterizzata dalla presenza ebraica. I lettori di Isaak Babel’ non hanno certamente dimenticato il fascino dei suoi racconti di Odessa. Gli ebrei delle classi agiate e imprenditoriali facevano grande la città con i loro palazzi, le loro aziende e i loro vasti commerci; gli intellettuali e gli artisti vivevano la consapevolezza di sé e l’orgoglio delle proprie peculiarità culturali come aspetti fondamentali dell’ebraismo; gli operai ebrei acquistavano rapidamente coscienza non solo di classe ma si organizzavano in “gruppi di autodifesa ebraica”, i ladri e i marinai, gli osti e i locandieri, le prostitute e i contadini degli shtetl che venivano in città a vendere e comprare, componevano un mosaico straordinariamente vivace e vitale. Ma, in quello stesso luogo, ci ricorda il libro, l’antisemitismo ebbe manifestazioni di violenza feroce e a Odessa ebbe luogo il primo pogrom su larga scala nella storia della Russia moderna. Le descrizioni di quei massacri, che provocarono poi la fuga verso l’America di molti ebrei, è come se tingessero di nero e rendessero illeggibili le altre pagine sullo splendore di quel luogo e di quella gente.

Nonostante questo mi sono ostinato a cercare di separare i libri sulla vita e la bellezza da quelli sull’odio e la morte, anche se in molti casi, come nel libro su Odessa appena citato, è impossibile farlo, perché la luce e il buio (come spesso nella vita) stanno nello stesso volume. Questo capita soprattutto nelle autobiografie, dove il racconto dell’infanzia e la giovinezza è poi annichilito dalle storie dell’annientamento delle famiglie, degli amici, di interi quartieri e villaggi.
Il ricordo del Male avrei voglia di tenerlo, in qualche modo, separato dalle testimonianze del Bene e della Bellezza, del Pensiero, l’Ironia e l’Arte.

Come ha spiegato Yosef Hayim Yerushalmi, nel fondamentale Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica (1982; trad. it. Pratiche Editrice, Parma 1983, poi Giuntina, Firenze 2011) la storia degli ebrei è storia di catastrofi. Ma anche rivelazione di Dio: “Spinto suo malgrado nella storia, l’uomo nel pensiero ebraico giunge ad affermare la sua esistenza storica nonostante la sofferenza che implica, e gradualmente, con fatica, scopre che durante questo cammino Dio gli si rivela”. La Bibbia sembra in grado di dare un senso illuminante a qualunque contingenza storica, presente o futura. L’origine del dramma ebraico sta nelle ripetute distruzioni del Tempio di Gerusalemme. Il primo Tempio (che ospitava l’Arca dell’alleanza) fu edificato, tra l’833 e l’826, da re Salomone, secondo il volere di suo padre David, che ne aveva avuto l’indicazione da Dio stesso. Fu distrutto dall’assiro babilonese Nabucodonosor nel 586. Il secondo Tempio, fu edificato, dopo il ritorno dall’esilio babilonese, tra il 536 e il 515. Fu distrutto dall’imperatore romano Tito nell’anno 70 della nostra era.

Ma perché si parla sempre della distruzione del Tempio e delle sue rovine, testimoniate dal malinconico Muro del pianto, e mai della sua straordinaria bellezza di quando stava in piedi? Un acuto storico dell’architettura e delle idee, l’ebreo polacco-inglese Joseph Rykwert, in La casa di Adamo in Paradiso (1972, Adelphi, Milano) ricorda come il Tempio di Gerusalemme, fosse, secondo molte fonti, il palazzo più bello del mondo (lo ridisegnarono, immaginandolo, tra gli altri, Athanasius Kirchner e Jan Bautista Villalpanda) e che servì da modello, tra l’altro, per la Cappella Sistina (basata esplicitamente sul Sancta Sanctorum del Tempio) e l’Escuriale di Filippo II.

“Ricorda cosa ti ha fatto Amalek”, ammonisce la Bibbia. Non si può dimenticare. E non si deve: per rispetto delle vittime e anche, come scriveva Primo Levi, per imparare a ricoscere nuovamente il Male, dai primi sintomi, qualora si ripresentasse (ma, ad esempio, nella ex Jugoslavia, purtroppo, non ne siamo stati capaci).

Nel mio modesto, e forse un po’ ingenuo, tentativo di rimettere in ordine il caos della mia biblioteca ebraica ho intanto messo dal livello dei miei occhi fino in alto il libri dei fratelli Singer e di Saul Bellow; di Josef Roth e Chiamalo sonno di Henry Roth; le storie e le leggende chassidiche di Martin Buber e le leggende degli ebrei di Louis Ginzberg; le utopie pedagogiche di Janusz Korczak; i pensieri poetici di Edmond Jabes e quelli spettinati di Stanisław Jerzy Lec; le dotte riflessioni di Maimonide, Baruch Spinoza, Gershom Scholem e Moshe Idel; i libri di Woody Allen e le monografie sul cinema di Hollywood; le storie e le foto degli shtetl; gli album di Marc Chagall; le graphic novel di Will Eisner; i testi del Bund e quelli del Sionismo; la storia di Israele e le opere della sua bellissima letteratura. Sotto, a scendere verso il livello del pavimento, i libri sullo sterminio, tenendo più su i racconti delle rivolte (come quella del Ghetto di Varsavia e le gesta di Marek Edelman e dei suoi eroici compagni), le testimonianze delle vittime, Maus di Art Spiegelman. Uno spazio di mezzo scaffale tiene separati tutti questi libri dalle storie delle paranoie antisemite e dell’odio razziale, le analisi del nazismo, le ricostruzioni di Auschwitz, Majdanek, Treblinka e degli altri campi di sterminio. Da qualche parte c’è, anche se al momento non lo ritrovo, il librettino dei disegni dei bambini di Terezin, che il bidello Marcello mi regalò alla fine dell’anno scolastico.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).