L’anno palindromo

Mercoledì 24 settembre inizia il nuovo anno ebraico. Per la festa di Rosh haShana si mangeranno i melograni e si getteranno nei fiumi o nel mare (ma basta anche una fontanella o una piscina) gli oggetti che simboleggiano i peccati dell’anno prima (tashlikh). Risuonerà lo Shofar per risvegliare il popolo ebraico dal torpore e ricordargli che sta per avvicinarsi il giorno in cui verrà giudicato (Maimonide, Yad, Leggi della penitenza, 3:4). Rosh haShana è in un certo senso il “Giorno del giudizio” (Yom ha-Din). Nei midrashim si racconta che Dio si sederà sul trono con di fronte i libri che raccolgono la storia dell’umanità (non solo del popolo ebraico) e ogni singola persona verrà presa in esame per decidere se meriti il perdono oppure no.

Quest’anno che inizierà sarà il 5775. Una cifra palindroma. Come le parole “otto”, “oro” o “ingegni”. Per i qabbalisti, avvezzi a sviscerare i significati dei numeri, queste quattro cifre che si possono leggere indifferentemente da destra a sinistra o viceversa, scatta subito un campanello d’allarme (non necessariamente per qualcosa di negativo).
Quasi una quarantina d’anni fa, a Varsavia, avevo preso a frequentare il Teatro ebraico (Teatr Żydowski), in Piazza Grzybowski. Un vecchio salone, quasi sempre deserto, dove si recitava in yiddish e agli spettatori veniva fornita un’ingombrante cuffia con la quale poter ascoltare la gracchiante traduzione simultanea. Uno dei pezzi forti del repertorio era il Dibbuk di Salomon A. An-skij. 
Scritto nel 1913-14, originariamente in russo, il celebre dramma fu contemporaneamente composto anche in yiddish e nel 1918, tradotto in ebraico dal poeta Chaim Nachman Bialik.

Al centro del Dibbuk (il cui titolo è in yiddish Der dibek: tsvishn tsvey veltn, Il Dibbuk: fra due mondi, con riferimento al legame fra mondo dei vivi e dei morti) c’ è la storia dell’amore impossibile fra Leah (Leye), figlia del ricco mercante Sender, e Hanan (Khonen), povero studente della comunità chassidica di Brynica. Senza speranza di poterla sposare, Khonen non esita a ricorrere alle arti segrete della Qabbalah pur d’impedire il matrimonio di Leye con altri pretendenti, ma rimane infine egli stesso vittima delle forze occulte che ha evocato. Il giorno del matrimonio con un giovane di buona famiglia, Leye ottiene il permesso di recarsi al cimitero per pregare sulla tomba della madre, ma sulla strada del ritorno è posseduta dal dibbuk di Khonen, lo spirito inquieto del giovane che si “attacca” (questo il significato della parola ebraica dibbuk) al corpo della sua sposa mancata, manifestandosi presso il baldacchino nuziale e mandando a monte il matrimonio. Leye viene quindi condotta dal rebbe Ezriel di Miropol, venerato tzaddik chassidico, per un esorcismo: ma il padre di Khonen, Nissan (Nisen), si manifesta dal mondo dei morti spiegando come Khonen e Leye fossero promessi sposi già da prima della loro nascita per un accordo giovanile fra genitori, di cui il padre della fanciulla si era dimenticato. Chiamato in causa innanzi a un tribunale rabbinico, Sender viene prosciolto dalle sue responsabilità e allo spirito di Khonen viene intimato, nel corso di un terribile rituale esorcistico, di lasciare il corpo di Leye. 
Minacciato di scomunica, il dibbuk deve abbandonare la ragazza, ma Leye, separata da colui che le era stato destinato, ne riconosce la voce durante il commiato e si lascia morire per ricongiungersi a lui per sempre.

Quella drammatica e triste storia di spiriti (uno di essi compare anche nel racconto all’inizio di uno dei migliori film dei fratelli Cohen: A Serious Man, del 2009) veniva messa in scena con l’ausilio di alcuni effetti speciali. Il dibbuk di Khonen svolazzava per aria come un trasparente lenzuolo di un fantasma che sembrava reale. Nonostante avessi assistito a diverse repliche non riuscivo a capire quale fosse il trucco. Così, dopo alcuni mesi, essendo diventato un buon conoscente di tutta la compagnia, osai chiedere a una bella attrice coi capelli crespi e rossi, dopo la fine dello spettacolo, quale fosse la magia che usavano per far apparire e sparire lo spirito inquieto. Mi sorrise e sussurrò che neppure loro lo sapevano. Durante la cena alla quale mi invitarono dopo lo spettacolo, per festeggiare il compleanno di un giovane attore, anche il regista e gli altri membri della compagnia mi confermarono che soltanto il tecnico delle luci, il vecchio e burbero signor Salomon, conosceva il trucco, essendone lui l’artefice avendolo, pare, ereditato da suo padre, gran mago degli effetti speciali del Teatro d’Arte di Mosca, ancor prima della Rivoluzione. Ma Salomon non lo si vedeva mai: arrivava appena prima dell’inizio degli spettacoli e spariva rapidamente appena calato il sipario.

Mi dissero però che era un’accanito bevitore. Capita l’antifona, comprai in un negozio in valuta per stranieri due bottiglie della migliore vodka. Mi appostai con molto anticipo, a sala ancora deserta, nei pressi della piccola cabina posta sopra l’altezza delle teste degli spettatori. Dall’oscurità vidi comparire un piccolo ometto, magrissimo, con i capelli bianchi lunghi, che zoppicava vistosamente. Quando mi vide fece per sparire dietro una pesante tenda. Ma vide brillare le due bottiglie che tenevo in grembo. Si avvicinò con un ghigno e venuto a sapere che erano per lui, si accasciò sbuffando su una panca nera. Mi sedetti anch’io e mi presentai. Gli allungai la vodka e gli chiesi, senza giri di parole, quale fosse il segreto del suo svolazzante dibbuk. Mi osservò a lungo in silenzio scuotendo la testa, e poi mi disse:
“Non so e non posso dirtelo. ¡E un segreto di mio padre che pratico quasi inconsciamente. Scusami, ma sono un tipo strano. Sono nato nel 5665 (il vostro 1904). Un anno palindromo”.
Si fermò qui. Come se la spiegazione dovesse bastarmi, e giustificasse il fatto che si tratteneva le due bottiglie. Mi alzai, lo salutai e andai ad accomodarmi, come al solito, in settima fila per assistere a quello spettacolo che ormai conoscevo a memoria, ma che continuava a comunicarmi una certa inquietudine.

L’anno successivo, quando tornai a Varsavia, vidi che Dibbuk era stato tolto dal repertorio. Telefonai all’attrice coi capelli rossi, in procinto di trasferirsi a Parigi al seguito di un provvidenziale marito, che mi disse che Salomon era morto e nessuno di loro era più in grado di far volare, con i trucchi delle luci, gli spiriti.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).