La caduta degli atomi

Al primo anno del Liceo, quando Gianfranco Cantelli (il professore di Filosofia) spiegava, avevo preso l’abitudine di guardare fuori dalla finestra. Il mio banco di “contestatore” un po’ daltonico era strategicamente posizionato in fondo all’aula, accanto al calorifero, appoggiato alla parete a vetri. Preferivo non guardare l’insegnante, ma concentrarmi sulle sue parole, cercando di trovare un appiglio con la realtà là fuori. Scattavano così nella mia testa, allora circondata da una selva oscura di barba e capelli, strane associazioni, che mi sono rimaste nel ricordo per sempre e che, ritengo, siano state, anche quando studiavo all’Università, la mia chiave per comprendere, un poco, la Filosofia. A quelle associazioni, assolutamente casuali, si agganciò infatti la scintilla della mia comprensione e, poi, l’assorbimento stabile nella memoria.

Ricordo ancor oggi le parole del professore, mentre spiegava il filosofo greco Epicuro, sul finire dell’anno scolastico: “Nella fisica epicurea il clinamen è la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta: deviazione casuale, sia nel tempo sia nello spazio, che permette agli atomi di incontrarsi. Il concetto fu introdotto da Epicuro con il termine greco parénclisi (παρέγκλισι), successivamente tradotto da Lucrezio con la parola latina clinamen”.
Stava piovendo: una pioggerellina tardoprimaverile uggiosa e insistente. Le goccie picchiettavano il vetro della finestra e scorrevano poi giù lasciando una scia che faceva lo slalom tra i grumi di polvere lasciati dai poco scrupolosi bidelli. Il vento spostava le gocce in discesa, provocando delle deviazioni laterali rispetto al percorso che avrebbero fatto se avessero potuto seguire il naturale movimento rettilineo dall’alto in basso.

Proprio mentre il professore, con voce rotta dalla passione, raccontava che, nell’opera Sulla Natura (De Rerum Natura, II, 216-219), il poeta latino Lucrezio, commentando la filosofia di Epicuro, afferma che “gli atomi cadono in linea retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, essi deviano impercettibilmente la loro traiettoria in modo appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell’equilibrio”, vidi due gocce cadenti incontrarsi, a causa delle loro discesa obliqua, e fondersi in una goccia sola e poi continuare la discesa accelerata dalla loro massa accresciuta. Sul vetro di una sbocconcellata e vecchia scuola fiorentina si stava compiendo un clinamen: un’“inclinazione” piccola ma perfetta. Mi emozionai come se stessi assistendo alla replica della creazione: all’incontro quasi amoroso di goccie devianti per un vento tiepido e persistente; alla loro unione non necessaria ma casuale; al proseguimento del loro cammino comune fino a sbattere sullo stucco secco della cornice lignea che sigillava la vetrata e rimbalzare sul terreno polveroso costellato di erbacce, dando loro nutrimento e speranza di vita.

La sera a casa, mentre la pioggia continuava a cadere insistente in mulinelli agitati dal vento, raccontai a mio padre questo episodio. Lui si alzò da tavola, con un sorrisetto, e andò a scartabellare nelle librerie del corridoio. Aveva sempre un libro per ogni occasione. Se ne tornò con un volumetto dal titolo rosso: Karl Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro (1841). Mi disse: «A proposito di gocce, senti cosa scriveva Marx: “La filosofia, finché una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: ’empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi'”. Mannaggia! Ignoravo che Marx si fosse occupato anche di Epicuro e che il suo materialismo affondasse le radici in quella filosofia (il professore non ne aveva fatto cenno…). Per Marx la visione del movimento degli atomi in Epicuro era la massima espressione della libertà. Mentre gli atomi di Democrito scendevano giù secondo un moto lineare, quasi predeterminato, senza possibili variazioni, quelli di Epicuro/Lucrezio, calavano dall’alto al basso secondo traiettorie variabili e imprevedibili, e quindi si incontravano a caso come le gocce di pioggia, prima di arrivare al suolo. Grazie al clinamen, cioè all’inclinazione rispetto alla verticale, gli atomi rimbalzano, si incontrano e si aggregano: la diversità delle loro forme e la molteplicità delle combinazioni generano la varietà delle cose: “Questi corpi primi si muovono infiniti in un universo infinito creando infiniti mondi. La deviazione quindi è libertà”. Il giovane Marx era ancora in grado di apprezzare la felice libertà del caso e far sua una visione della Natura (e forse anche della Storia) non determinata dalla necessità.

Forte di questo avallo ideologico, divenni così un estremista epicureo, dedito più alla libertà dei vizi che ai rigori della militanza politica, capace di citare nelle assemblee molto più spesso Sulla Natura che Il Capitale. Ancora oggi rimango convinto che pochi testi come il De Rerum Natura, nella storia della filosofia, grazie forse anche al fatto che si tratta di un pensiero di un filosofo tramandato da un poeta, riescano a comunicare un senso di libertà e felicità così grandi.
Per i cabbalisti, la creazione del mondo è stata possibile perché Dio si è “ritratto”. L’antico termine ebraico Tzimtzum designa appunto questa “contrazione” di Dio, senza la quale nulla sarebbe potuto avvenire. Dio si è autolimitato per far spazio e creare il mondo. C’è pero un paradosso, una contraddizione, nell’ipotizzare simultaneamente l’assenza e la presenza di Dio. Lo spiegò bene Rabbi Nachman di Breslavia: “Solo in futuro sarà possibile comprendere lo Tzimtzum che ha portato in essere lo ‘Spazio Vuoto’, poiché di ciò dobbiamo dire due cose contraddittorie… Lo Spazio Vuoto è avvenuto mediante lo Tzimtzum, in cui, per così dire, Egli ha ‘limitato’ la Sua Divinità e l’ha ritirata da lì, ed è come se in quel luogo non vi sia il Divino… la verità assoluta è che il Divino deve tuttavia esservi presente, perché certamente nulla può esistere senza il Suo dargli vita” (Likkutei Moharan, I, 64:1).

Se si vuole immaginare la creazione come libertà, visto che addirittura Dio si è ritirato per fare spazio, è impensabile non ipotizzare una caduta della pioggia delle particelle elementari che non sia stata in balia di moti che dessero la possibilità di associazioni imprevedibili e casuali. Il clinamen è la conseguenza dello Tzimtzum: nell’infinito spazio la caduta devia in continuazione.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).