Arte per bambini

Il bar cinese della Stazione ferroviaria di Mantova è affollato di nordafricani alticci, anziane signore che giocano alle macchinette e qualche passeggero che si rifornisce d’acqua per stemperare la canicola settembrina. La tettoia della pensilina, in ferro verde bottiglia, ha una cornice a frange, come un antico tappeto. A causa di un increscioso equivoco ingenerato dal mio libro sugli Uffizi, quest’anno al Festival di Mantova mi hanno chiesto di accompagnare un gruppo di bambini a visitare Palazzo Te, con il “premio finale” di un generoso cono gelato. Una cosa semplice: quattro sale, con il racconto di qualche storia e mito, per una trentina di fanciulli.

Però Palazzo Te, che è una vera “residenza suburbana”, non è vicino come sembra: arrivi alla Casa del Mantegna e c’è ancora un bel pezzetto di strada da fare, tra viali e giardini, dove un tempo c’erano paludi e canali. Con trentaquattro gradi all’ombra, arranco sudato verso l’ingresso e scorgo una fila lunghissima. Ci sono cinquanta bambini, quasi tutti accompagnati da papà e mamma. Inoltre: un’altra quarantina di persone adulte e persino una signora di novant’anni, accompagnata da tre arzille figlie. Tutti pretendono di entrare e non vogliono nemmeno prendere in considerazione l’eventualità di doversene tornare a casa a bocca asciutta. I ragazzi dell’organizzazione cercano di calmare gli animi e trovare una soluzione e propongono di dividere l’evento in due mezz’ore: prima i bambini e poi gli adulti. Molti genitori obiettano che sono venuti apposta per vedere le reazioni dei loro figli dinanzi all’arte. Un paio di bambini si avvinghiano alle ginocchia delle madri e gridano che non andranno mai là dentro da soli. La novantenne ci fa presente che lei non può aspettare mezz’ora al sole e che vuol anche portare con sé le sue “bambine”. A quel punto si decide che entreranno prima i ragazzi accompagnati dai genitori e la novantenne con figlie. Se qualcuno avesse avuto dei bambini da affittare per mezz’ora avrebbe realizzato un bel guadagno! Del resto, un paio di genitori che hanno più figli, li distribuisce altruisticamente a chi non li ha, permettendo così loro di entrare nella prima mandata dei “figliomuniti”.

Raduno il guppo nel cortile dove un tempo c’era il labirinto e spiego che la visita era pensata per dei bambini e quindi…. si inizia dalla Stanza dei cavalli; ai piccoli non fa un grande effetto, mentre i genitori si appassionano alle salamadre scolpite sul soffitto, simbolo della scarsa propensione all’amore, mentre Federico II Gonzaga era piuttosto un assatanato. I bambini si entusaismano invece, nella Loggia, alle vicende del re Davide e della sua passione per Betsabea, che lo spinge a spedire il di lei marito Uria a morire in una missione suicida. Dalle domande che i piccoli mi pongono, sospetto che le telenovele abbiano decisamente deformato la loro idea dell’amore, rendendoli assai più interessati agli intrighi sentimentali.

La visita alla Camera dei Giganti fila via liscia, anche se lo spazio è quasi tutto occupato da un’evocativa installazione di Fabrizio Plessi con massi e panche rovesciate conteneti video di acque correnti. I giovani visitatori stanno tutti con il naso all’insù a fissare curiosi gli dei che si danno fare per respingere l’assalto di quegli omoni superbi. Un bimbetto con gli occhiali e i capelli tagliati a spazzola esclama: “Li hanno rimessi al loro posto!”, e sorride soddisfatto a quel violento ristabilimento dell’ordine. Come scrisse, in proposito, Stazio (Tebaide, X, 909): “Quale speranza può avere l’uomo dopo l’arrogante battaglia sui Campi Flegrei?” (luogo dove, pare, precipitarono i giganti). Nella sala delle aquile, i piccoli visitatori perdono un po’ il filo della storia del maldestro Fetonte, figlio di Apollo, del carro del Sole e del suo precipitare non tanto lontano da lì (a Crespino sul Po), dopo aver desertificato la Libia. Ma ammirano le quattro aquile con le ali spiegate e additano schifati alle mamme le poppute arpie collocate lungo la cornice a stucco. Nella succesiva Sala dei venti, mentre sto spiegando le figure dei mesi sul soffitto, vengono ad avvisarmi che il gruppo degli adulti, essendo già passi tre quarti d’ora, sta rumereggiando là fuori. Così taglio corto e mi risparmio, come del resto avevo già programmato, dato il tema “scabroso”, la Sala di Amore e Psiche. Ma i bambini si piantano là nel mezzo e ammiccano e sghignazzano, guardando le figure svestite e abbracciate sulle pareti.

Nell’uscire, si crea un ingorgo sulla porta della stanza tra il nostro gruppo un un nutrito blocco di turisti stranieri che preme nel senso opposto (tra i quali anche il divertito scrittore Emmanuel Carrère). Così si perde tempo prezioso e non rimane tempo di parlare di Giulio Romano, architetto e illustratore (con molti aiutanti), di questo singolare edificio all’antica. Mi rifaccio col gruppo successivo dei “grandi” al quale, mentre i bambini trangugiano i gelati, infliggo una visita ricca di date, notizie e ardite ipotesi interpretative. Ma la cosa non sortisce un grande effetto: quasi tutti loro infatti conoscevano già il Palazzo e, scopro con sorpresa, eran venuti qui contenti dell’idea di poter esser trattati da ragazzini, in un luogo destinato, come si legge nella Sala di Amore e Psiche, “all’onesto ozio dopo i lavori e per recuperare la virtù della quiete”.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).