Solo un crimine

La mattina del primo gennaio 2006 ero a Istanbul con l’intenzione di partecipare alla messa dei cristiani armeni, interesse personale di un ateo. Di buonora mi incamminai lungo l’Istiklal Caddesi, corso centrale che appariva ordinato e tranquillo e cioè privo di quel genere di postumi da Capodanno che persino nel Beyoglu, il quartiere più occidentale di Istanbul, rimane una festività da occidentali che i musulmani snobbano. Già da un paio di sere avevo sbirciato nelle librerie alla distratta ricerca di un qualche volume di Orhan Pamuk, il più famoso scrittore turco, già insignito di vari premi internazionali e tuttavia accusato di «denigrazione dell’identità nazionale» per quello che aveva scritto e dichiarato sul genocidio dei cristiani armeni. Poi il processo era stato archiviato, ma il governo Erdogan non transigeva e, semmai, aveva consolidato un genere di negazionismo davvero poco europeo: tanto che presto sarebbe entrato in vigore il nuovo articolo 306 del codice penale che puniva con dieci anni di carcere chi avesse affermato che gli armeni hanno patito un genocidio.

Pensavo a queste cose anche perché, intanto, io la chiesa armena non riuscivo a trovarla. Le due mappe a mia disposizione spiegavano che stavo continuando a girarci attorno: ma la chiesa di Sant’Antonio non compariva mai, non s’intravedeva un passaggio, una vista. Nessuno mi dava informazioni, soprattutto: come se parlassi di qualcosa che non esisteva. Poi trovai la chiesa, ma bisogna spiegare come. L’unica maniera di accedervi, in pratica, comportava di entrare nella lunga galleria di vetro del mercato del pesce di Galatasaray e aggirare una bancarella: come se voi al supermercato aggiraste il bancone della gastronomia e v’infilaste nel retro. C’era un passaggio e poi un cortiletto, e finalmente la chiesa. Diciamo che la visita non era agevolata.

C’era una messa. La liturgia è molto suggestiva, del tutto diversa da quella cristiana cattolica, ma questo ora non interessa. Ad attrarre la mia attenzione furono gli sguardi di sospetto misto a compiacimento di quei venti o al massimo trenta fedeli presenti; la sensazione, cioè, non tanto di essere fuori del tempo, ma, a rigor di legge, fuori dalla Turchia, perlomeno la Turchia musulmana coi suoi 71 milioni di fedeli. Alla fine della messa qualche fedele si avvicinò e mi invitò a casa del sacerdote per festeggiare l’anno nuovo, che loro celebravano come il resto d’Europa. Salimmo al primo piano di un palazzetto e ci fecero sedere attorno a dei tavoli, saremo stati una decina. Ci diedero due pani a testa, uno dolce e uno salato, e da bere una lattina di Fanta. Buon anno. I dialoghi erano incespicanti come il mio inglese. Più tardi mi alzai e mi avvicinai a un muro tappezzato di fotografie: inquadravano la comunità armena di Istanbul – tipo formazione calcistica – e si capiva che le scattavano una volta all’anno sin dall’Ottocento. Guardai le foto scattate attorno al 1915, quando i turchi deportarono e affamarono e violentarono e decapitarono e impalarono un milione e mezzo di cristiani armeni. L’ho scritto altre volte: varie fonti spiegano che Adolf Hitler, nel prefigurare lo sterminio degli ebrei, si ispirò chiaramente a quello degli Armeni, tanto da fargli dire, in un celebre discorso del 22 agosto 1939, che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare uomini e donne e bambini senza preoccuparsi di eventuali conseguenze future: «Chi mai si ricorda oggi», si chiese, «dei massacri degli Armeni?».

Ecco, siamo al punto. In quelle foto, da un anno all’altro, adulti e anziani d’un tratto sparivano e via via rimanevano solo giovani e bambini. Feci un paio di domande stentate. Cercai di strappare qualche parola a un ecclesiastico che si era avvicinato, ma si vedeva che non aveva nessuna voglia di parlarne, meglio: era palesemente reticente.
Ripensai a tante cose, anzi, le ripenso ora. A quando, per esempio, Giovanni Paolo II, poi Papa Ratzinger, parlò dei genocidio armeno e il principale quotidiano turco, il Milliyet, scrisse che «il Papa è stato colpito da demenza senile» mentre altri giornali vicini ai Lupi Grigi, organizzazione riconosciuta dal governo turco, lamentarono che Ali Agca non fosse riuscito nel suo intento. In un comunicato congiunto con Karekin II, leader della chiesa armena, Giovanni Paolo II aveva descritto con le stesse parole quello che gli armeni chiamano il «Medz Yeghern», il «Grande Crimine». E quando Ratzinger divenne Papa, poi, scrissero così: «È Papa il cardinale che ha polemizzato con Erdogan». L’allora cardinale Ratzinger, in un’intervista a Le Figaro, si era infatti detto contrario all’ingresso della Turchia in Europa, e il premier Erdogan aveva risposto così: «La Turchia parla solo coi paesi europei». Il clima era già quello. Quando poi Papa Ratzinger aveva chiesto di visitare Costantinopoli e di poter incontrare il patriarca ortodosso, nel 2005, Ankara rispose di no. Le autorità turche si tennero sul vago sino all’omicidio di don Andrea Santoro, il missionario romano ucciso in Turchia nel febbraio 2006: l’invito ufficiale arrivò immediatamente dopo l’assassinio ed ebbe tutto il sapore di un gesto riparatorio. Poi, prima del viaggio, sempre nel 2006, fu accoltellato anche padre Pierre Brunissen, un religioso francese di 74 anni che era sulle orme di don Santoro e aveva riaperto una piccola chiesa di una città a maggioranza islamica. Intanto monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, denunciava all’agenzia Asianews un clima di aggressione verso i cristiani. Nel settembre 2006, per dire, in Turchia uscì un romanzo che descriveva l’assassinio di Papa Ratzinger a Istanbul: si intitolava «Papa’ya suikast» e protagonista del romanzo era il Mit, il servizio segreto turco, espressione della destra nazionalista e islamica.
Era la mia quarta volta in Turchia, e da allora non sono più tornato.

Dopodiché forse ha ragione Antonio Polito del Corriere, l’inflazione del grido «vergogna» rischia di anestetizzare un’espressione che andrebbe centellinata: ma a margine del comportamento governativo sul «caso Armenia» magari ecco, come dire: un po’ di vergogna è lecito provarla.

Ci siamo prostrati davanti alla Cina delle Olimpiadi e, per non offenderla, ci siamo rifiutati di ricevere il Dalai Lama; abbiamo flirtato con la Russia di Putin e minimizzato sulla guerra in Cecenia; abbiamo accolto Gheddafi e il suo circo, salvo, dopo il golpe, uscire penalizzati dalla spartizione del petrolio libico; siamo riusciti persino a rendere omaggio al dittatore bielorusso Lukashenko, isolato dal mondo ma non da noi. Per amore degli affari, insomma, ci siamo ampiamente sputtanati: ora il governo Renzi prosegue con la Turchia di Erdogan, che ammicca all’Iran e nega l’esistenza del genocidio armeno.
Ma non è che certe uscite frettolose del segretario generale dell’Onu, peraltro pronunciate e mezzo portavoce, facciano sentire molto meglio. Ieri Stephane Dujarric, portavoce di Ban Ki-moon, ha detto che il massacro degli armeni nel 1915 fu «un crimine atroce» ma non ha usato il termine «genocidio», come invece ha fatto Papa Francesco provocando l’ira della Turchia. Non è chiaro se l’aver compiuto soltanto «un crimine atroce» da un milione e mezzo di morti (uomini, donne, bambini) sia cosa radicalmente diversa da aver compiuto un genocidio, sta di fatto che le pressioni turche si sono fatte sentire.

Ma, quel che è peggio, le pressioni turche in Italia si cerca direttamente di prevenirle. Claudia Fusani, sull’Huffington Post, ha raccontato che circa un mese fa – quindi ben prima della polemica seguita alle parole del Papa – il governo Renzi ha preteso di eliminare la parola «genocidio» da una rassegna culturale dedicata al popolo armeno sterminato dai turchi un secolo fa. Il titolo della rassegna, fissato a fine dicembre, era «Armenia, a cento anni dal genocidio (1915-2015)» e tutto pareva pronto: nel depliant erano elencati il comitato scientifico, l’ambasciata d’Armenia e varie associazioni e luoghi d’incontro. Ma a metà marzo ancora non era arrivato il via libera del Ministero dei Beni culturali, senza il cui patrocinio l’utilizzo dei luoghi sarebbe stato impossibile. Poi la verità: il problema era la parola genocidio nel titolo del programma, che andava eliminata. La rassegna ha così assunto il titolo «Armenia: metamorfosi tra memoria e identità», una cosa così. Non solo. L’ambasciata armena ha chiesto cittadinanza nel calendario delle iniziative per i cento anni dalla Prima guerra mondiale (il genocidio avvenne nel biennio 1915-1916) «ma questa volta ci hanno proprio chiuso la porta in faccia», ha spiegato la professoressa Maria Immacolata Macioti, sociologa e docente alla Sapienza, in quanto «ci hanno spiegato che non era il caso di includere la questione armena tra le commemorazioni del 1915 perché la Turchia è nella Nato e non avrebbe gradito». Vergogna, dicevamo.

Ora il Parlamento europeo dovrebbe chiedere alla Turchia di «continuare i suoi sforzi per il riconoscimento del genocidio armeno», secondo quanto si legge nella bozza di risoluzione che i deputati europei discuteranno. Ma non è chiaro di che sforzi si parli. La banale verità è che Erdogan rimane a capo di una nazione in cui la recrudescenza anti-armena, nello scorso decennio, ha sfiorato livelli demenziali. L’altra banale verità è che nello scacchiere politico occidentale permangono sacche di un negazionismo-soft che tende a banalizzare un genocidio che manca dai libri di scuola turchi ma praticamente anche da quelli tedeschi: il quotidiano tedesco Die Welt diede notizia che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani ed era rimasto l’ultimo stato tedesco a parlarne in un testo scolastico; secondo Die Welt, era la mera conseguenza di pressioni esercitate da Ankara, che sul tema manifesta un’autentica isteria. Il 14 aprile 2006 il ministero turco dell’Istruzione ordinò che tutti gli alunni scrivessero un tema sulle false affermazioni su un certo genocidio riguardanti gli armeni, e, non pago, indisse un concorso sul tema «La ribellione armena durante la prima guerra mondiale». Intanto il nuovo articolo 306 del codice penale puniva chiunque dichiarasse che il genocidio aveva semplicemente avuto luogo. Sempre nello stesso periodo furono cambiati tutti i nomi degli animali che facevano riferimento all’Armenia: la pecora Ovis Armeniana diventava Ovis Anatolicus, il cervo Capreolus Armenus diventava Capreolus Cuprelus. Ma queste, forse, sono solo paturnie da impallinati sui diritti umani. Gente che ancora, di nascosto, si vergogna: perlomeno di una nazione che definitivamente confuso la politica estera col commercio estero. I 71 milioni di turchi, prima che musulmani, del resto sono consumatori.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera