Di ipocrisia virtù

In un’estate povera di polemiche culturali – c’è crisi anche di quello – fa ancora discutere una sorta di «elogio dell’ipocrisia» pubblicato dallo scrittore Alessandro Piperno sul Corriere della Sera. In realtà non è chiaro chi ne discuta, ma così si è letto. Dico la mia – ne sentivate tutti un gran bisogno – ed eccomi a liquidare l’elogio dell’ipocrisia fatto da Piperno come una spettacolare paraculata atta giustificare le proprie attitudini personali, a giustificare cioè una propria possibile indole e trasformarla in una sensibilità che impedisca di dire la verità: anche quando sarebbe utile. In pratica Piperno elogia l’ipocrisia non senza una dose di insopportabile ipocrisia, e non credo che abbia fatto apposta.

Perché tanto odio? E’ presto detto. Piperno anzitutto narra un paio di aneddoti personali: quando suo nonno rifiutò di rivelare a una pazza che il suo cane non esisteva (perché dirglielo? Lei era felice così) e quando sbagliò nel dire alla sua ragazza – Piperno, non suo nonno – che lei non era propriamente l’unico genere di femmina che poteva piacergli: «L’ho resa inutilmente infelice, l’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo». E, messa così, l’ipocrisia elogiata da Piperno sembra solo pedagogica e delicata. Poi comincia a fare un po’ di casino: «Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini, che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio e “sembravano felici”». E, già qui, Piperno comincia a confondere la schiettezza generica con la schiettezza di chi ti oppone verità negative, cioè quella diffusa umanità che sprizza malanimo e anaffettività e vuole soltanto farti del male. Ma forse è più grave che Piperno tenda a confondere i suoi idoli («adoro gli ipocriti») con gente intelligente e capace di stare al mondo, cioè capace di dire un’utile verità in uno dei milioni di modi in cui è possibile dirla: è in questa categoria che rientrano per esempio «gli oncologi pietosi» che Piperno definisce banalmente ipocriti, e così pure vi rientra la donna che dice che a letto non è mai stato così bello, o che ti dice che, stempiato, sei ancora un bel tipo.

Piperno però adora genericamente «i ruffiani di ogni foggia e colore» e rischia di confondere l’ipocrisia, per esempio, anche con l’intelligente omissione. Ma l’ipocrisia è un altra cosa: è il comportamento di chi finge di avere contezze e opinioni e sentimenti che in pratica non possiede, è un inganno, una sostanziale bugia. Non è semplicemente langue de bois, non è una circonlocuzione ellittica da divertirsi a decrittare.

Va bene, ma perché tanto odio? Non è contro Piperno, che forse si è spiegato male (detto schiettamente: sì) bensì è contro il formidabile alibi che lui rischia di fornire agli ipocriti veri, a quelli che peraltro hanno le sembianze di italiani tipici e che dietro un’ipocrisia ammodo e finta-sensibile celano perlopiù ignavia, de-responsabilizzazione, pilatismo, menefreghismo civico, separatezza piccolo-borghese. Nota: chi scrive è di origine austro-ungarica e comprende più di altri lo stupore anglosassone e teutonico per il nostro tartufismo ipocrita: e non saranno mica tutti intrisi di malanimo, gli stranieri, non saranno mica tutti insensibili nel loro essere notoriamente più schietti di noi. E’ più facile osservare che certa ipocrisia latina – senza tirare in ballo cattolici versus protestanti – corrisponda a un’incapacità storica (nostra) di essere diretti e semplici, ciò che ci rende indecifrabili anche a stranieri che sono qui da trent’anni.

Ecco perché è molto rischioso adulare l’ipocrisia. Piperno scrive che la letteratura (e il cinema, aggiungo) aborrisce l’ipocrisia ma che la vita non può farne a meno. In parte è così. L’ipocrisia è anche un lubrificante della macchina sociale e la sua origine è rintracciabile sin dallo spulciamento tra gli scimpanzé. Stia tranquillo Piperno: anche noi schietti seguiteremo ad accomiatarci con educazione (cordiali saluti) e diremo che la pasta era deliziosa (sembrava colla) e che il neonato era carino (un mostro) e che il morto era tanto buono: messa così sì, è vero, la stabilità civile è dovuta anche a una serie di inganni micro-sociali. Ma l’ipocrisia è anche altro: è il linguaggio che promuove l’interesse personale cercando al tempo stesso di occultarlo, qualcosa che si fa largo negli star-system in termini che ormai vanno oltre ogni educazione e formalismo: «Sei bravissimo». «Sei più bravo tu», tutti «fantastici» e «visionari» e in particolare «un genio». Presto l’ipocrisia di Piperno l’insegneranno ai figli perché facciano strada nella vita; già la si apprende ai corsi di marketing («buonasera sono Tania, come posso esserle utile?») mentre i camerieri ci elogiano per la nostra «ottima scelta» e la giacca più sformata ci fascia ogni volta «divinamente».

E la maledetta verità? Il sincero di Piperno rischia di sembrarci solo un ingenuo avventato, un cattivo stratega, un grondante malanimo, un incapace di essere altro. In effetti anche la sincerità col cuore in mano è un vestito che cade meno bene di una volta. «Nella cosiddetta vita di tutti giorni la verità mi appare così fastidiosa, così losca che preferisco non averci nulla a che fare», scrive. Auguri. Ormai «il solo ambito in cui sono capace di esercitare una certa intransigenza morale è la letteratura», scrive ancora. Ecco una differenza tra un’ipocrisia e un’omissione più o meno intelligente, non so: io, per esempio, che cosa penso della letteratura di Piperno, mi limito a ometterlo.

(Da Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera