Non ascoltiamo più come un tempo

E l’ascolto, allora?
Li ho letti gli articoli sulla lettura, quelli ripresi dal Post: tutti interessantissimi, dicevano che d’un tratto ci siamo accorti che non leggiamo più come un tempo, che leggiamo in un altro modo, che forse stiamo sviluppando dei diversi circuiti per scorrere e filtrare la corrente di informazioni online, che peraltro non è soltanto una cosa da nativi digitali, perché la lettura non lineare sta avendo la meglio anche in chi è cresciuto con strumenti di lettura tradizionali, e oggi, insomma, un testo lungo non riesce più a reggerlo neanche un sessantenne che stia troppo al computer. Fine dei periodi lunghi e articolati e con tante subordinate laterali. Il discorso era fatto meglio, sì.

Ma voglio arrivare a chiedere: e l’ascolto? Io è da una ventina d’anni che mi ci dedico, e la tentazione di riversare finalmente in un testo (post) tutti la filosofia della musica e la psicoanalisi musicale che mi sono infelicemente letto (roba che esiste) è frenata solo dal fatto che vorrei che qualcuno però ora continuasse a leggermi, appunto.

Parto da una domanda elementare. Se due o trecento anni fa il pubblico colto (Wagner) ma anche quello più popolare (ultimo Mozart) ascoltava senza battere ciglio opere che duravano dalle quattro alle sei ore, dite, credete che è perché fossero scemi?
Di recente, al Festival del giornalismo, ho partecipato a un dibattito sul tramonto della critica musicale. Ho dette delle cose che ritengo ovvie e che vi risparmio: riguardano la fine della musica in senso tecnico e poi la consacrazione del celebre detto secondo il quale «scrivere di musica è come ballare di architettura»: finalmente ci siamo arrivati, nel senso che i più preferiscono ascoltare direttamente (i preview si Itunes, per dire) anziché leggere ciò che descriva l’ineffabile. Però poi ho detto che però, secondo me, c’è anche un’altra cosa: siamo cambiati noi.

Verso la fine del millennio scorso fui generico, e scrissi – su un quotidiano – di fine dell’ascolto inteso come «fine di una capacità di ascolto non strofica, non simmetrica nella melodia, non elementare nella sua ritmica regolare e ripetuta. Fine di certo saper scrivere, studiare, concentrarsi, parlare, sintetizzare, pensare». Ma ero generico, infatti. Non facevo, in effetti, che pronosticare una parte del presente: ossia un’umanità «ridotta a pura relazione, a mera intuizione e sensazione fulminea, a immagine sintetica e contratta ormai priva di sequenza, orfana di una concezione del pensiero che implichi un ritorno su di sé».
Un po’ ermetico, e poi sapeva tanto di invecchiamento, di ritardo culturale e di «dopo di me il diluvio». È che avevo appena letto un articolo di Paolo Isotta sul Corriere. Raccontava e paventava un’umanità incapace di studiare pensieri e leggere romanzi e soppesare il senso della poesia, dunque la fine di un certo tipo di trasmissione del pensiero. Ma soprattutto, a proposito di ascolto, scriveva – lo traduco con parole mie – che ormai il sistema percettivo del pubblico è a tal punto incapace di distinguere un linguaggio musicale da ciò che non lo è (e non lo era, per esempio, una mera aggregazione di suoni fatta dal compositore Luigi Nono) che ormai c’era gente che ascoltava la musica di Luigi Nono come se ascoltasse la musica di Brahms. Il che non dimostrava che il pubblico avesse imparato ad ascoltare Nono, ma che aveva definitivamente disimparato ad ascoltare Brahms. In altre parole: il pubblico percepiva un linguaggio (Brahms) come un non-linguaggio (Nono).

Così però si fa complicata. Mi limito a dire che la cultura dei brandelli audiovisivi, insomma, sta dando la mazzata finale a un processo più lungo, ma che ha portato i plebei che nell’Ottocento ascoltavano tutto il Tristano senza fare una piega (e gli sembrava lungo giusto, senza problemi di concentrazione, come se noi ora andassimo a vedere un film di 15 ore) a diventare quei plebei che invece siamo ora. Non sto a menarla con importanti pareri di neuroscienziati cognitivi: basti comprendere, e intuire, che un certo tipo di ascolto tende a sparire, soffocato dalla schiuma leggera dell’audiovideo. L’ascolto attivo – inteso come rapimento, inteso come sprofondare di fronte alla propria anima, noi soli e la musica – tramonta appunto come un romanzo che oltrepassi le cento pagine o come una frase che si contorca per troppe subordinate. Tramonta alla stregua del pensiero sequenziale che gli è necessario e che parimenti è necessario per comprendere un’opera nella sua interezza: a meno di concepirla come una somma di arie o di leitmotiv fastidiosamente intervallati da melodie asimmetriche. Tramonta perché implica un confronto elementare – noi soli e la musica – che dunque implicherebbe una riflessione nel senso puro del termine, un ritorno su di sé, un insopportabile rallentamento interiore che è diventato incompatibile con questa vita di relazione o che a noi, invecchiando, spesso non interessa più perché ci asciughiamo dentro. In ogni caso: il bambino che ascolti musica da solo, in cameretta, oggi, si tende ad accompagnarlo dallo psicologo.

(Da Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera