La mafia che non c’è. E quella che c’è

L’incredibile caso Scarantino merita un riassunto, soprattutto dopo la partecipazione del falso pentito a Servizio Pubblico di giovedì sera e dopo il colpetto di scena finale: le manette a Scarantino appena fuori dagli studi televisivi. Un arresto senza particolari dietrologie e che ha messo in imbarazzo più che altro le Forze dell’ordine, costrette a ricorrere ai casting di Servizio Pubblico per reperire un latitante: oggi gli unici inviti a comparire che funzionano sono quelli in televisione. Per il resto, l’ennesimo reato non di mafia attribuito a Scarantino, «abusi sessuali», non fa che confermare il profilo del più improbabile degli uomini d’onore: già vent’anni fa Scarantino era conosciuto come un meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con tre transessuali, insomma non proprio l’archetipo dell’uomo d’onore. Ma, quel che capitò, capitò a lui. A lui andranno aggiunti i miti consigli evidentemente rivolti anche a due testi che confermarono le invenzioni di Scarantino: cioè Salvatore Candura e Francesco Andriotta.
Che Scarantino fosse un improbabile imbucato lo compresero subito alcuni pentiti autentici coi quali fu messo a confronto (Totò Cancemi, Mario Santo Di Matteo, Gioacchino La Barbera e, molto più tardi, Giovanni Brusca) ma soprattutto lo capirono investigatori di razza come Ilda Boccassini, ai tempi distaccata a Caltanissetta (1993-1994) e primo pm che verbalizzò ufficialmente il falso pentito. Lo snodo resta qui: Scarantino può anche continuare a raccontare che gli investigatori e l’ex questore Arnaldo La Barbera lo torturassero – e potrebbe anche essere vero, o perlomeno io credo che lo sia – e può anche ribadire che fu istruito e «formattato» perché la sua falsa verità su D’Amelio potesse ingannare i pm e reggere a processo: ma questo non spiega perché la Boccassini, per esempio, capì l’inganno da subito e altri pm come Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo non lo capirono mai, anzi: all’apparenza fecero veramente di tutto per non capirlo, al punto che del «depistaggio» di Scarantino divennero i più autorevoli e inconsapevoli complici.

1993. Compare Vincenzo Scarantino, meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera diranno che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, quella che uccise Paolo Borsellino. Ma fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi…’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare…». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma fa niente. Il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l’ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano.

1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrive la citata relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c’è da fidarsi – scrive assieme al collega Roberto Saieva. Durante l’estate il pm si rende disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le risponde che non è necessario. Una vertice per valutare le incongruenze di Scarantino viene rinviato di continuo, e non ci sarà mai. Sinché la Boccassini riparte per Milano e le sue indagini sono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo. La Boccassini, cioè, riparte senza che i pm che la sostituivano volessero discutere di Scarantino. Oltretutto i i pm, di lì in poi, decideranno di credere a versioni che parrebbero inverosimili anche al più digiuno di cose mafiose: infatti Scarantino, picciotto di borgata, aveva messo a verbale che aveva tranquillamente presenziato durante una riunione mafiosa in cui Totò Riina diceva: «A ‘stu curnuto s’ha ‘a fare saltare ‘nda l’aria». Riina parlava di Borsellino. Lo stesso Riina avrebbe poi affidato a uno come lui, all’improbabile Scarantino, una delle più efferate stragi della storia d’Italia. Questa è la verità che i pm Palma, Petralia e Di Matteo difesero coi denti, verità che uno smisurato numero di giudici, per 15 anni e per tre gradi di giudizio, furono disposti a credere.

1995. Alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La prospettiva che possa crollare il castello istruttorio costruito attorno a Scarantino, tuttavia, sembra terrorizzare la procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli: è lui, in luglio, a convocare i giornalisti e a parlare di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, è spettacolare e vi partecipa anche il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore». Aggiunge il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Insiste Caselli: «E’ inaccettabile e calunnioso… il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio». Sempre in luglio, il 26, la procura di Caltanissetta ordina di distruggere una duplice intervista che Studio Aperto aveva appena fatto a Scarantino: un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Il falso pentito aveva raccontato ai giornalisti che fu torturato nel carcere di Pianosa e la sua deposizione fu tutta una montatura. Notevole che Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti: in ogni caso l’intervista sparì perché la magistratura la fece sequestrare. Non solo. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto – ufficialmente – quasi vent’anni dopo. A Servizio Pubblico, in particolare, Scarantino ha raccontato che gli investigatori dopo l’intervista a Studio Aperto minacciarono lui e sua moglie e i suoi figli. Direttamente. A casa.

1998. Ogni dubbio su Scarantino viene tacitato assieme ai suoi tentativi di ritrattare. Dice il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia… Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Dice il pm Antonino Di Matteo in una requistoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni… L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra… Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario». Eppure altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura».
Scarantino, negli anni, ha fatto anche i nomi dei pm Annamaria Palma e Antonino Di Matteo. Con Annamaria Palma è anche sceso in qualche particolare. Il 20 novembre scorso, oltretutto, nell’aula del «Borsellino Quater» l’ispettore di polizia Luigi Catuogno (che nel 1998 era addetto alla tutela di Scarantino) ha messo a verbale che «Scarantino diceva che la dottoressa Palma aveva architettato tutto» e diceva pure «che con la strage di Borsellino lui non c’entrava nulla». Va detto che la Palma, diversamente da Di Matteo che è rimasto in Sicilia, sin dagli anni novanta intraprese altra carriera, tanto che, sino all’anno scorso, era a capo della segreteria del presidente del Senato Renato Schifani; su questi e altri dettagli il Fatto Quotidiano non ha lesinato: «Le frequentazioni dell’ex pm Palma (e dei suoi familiari) con la politica che contava in Sicilia, del resto, datavano a qualche anno prima, quando la Palma fu testimone di nozze dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro». Insomma, la Palma rischia di diventare un bersaglio perfetto.
Anche perché, subito dopo di lei, c’è Di Matteo. E lui – è la tesi oggi ricorrente, anche per difenderlo nel suo ruolo di pubblica accusa nel processo sulla «trattativa» – si dice sempre che fosse l’ultimo arrivato, e che contava poco. L’ha ripetuto anche Marco Travaglio giovedì sera. Occorrerebbe spiegare, allora, perché la requisitoria del processo bis per la strage di via D’Amelio (15 dicembre 1998) fu affidata a uno che contava poco. Di Matteo quel giorno disse, tra molto altro: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni… questa conclusione non è il risultato di un atteggiamento di pregiudiziale ed acritico sostegno alle tesi compendiate nei capi di imputazione. Non è, signori della corte, un voler difendere a tutti costi una impostazione accusatoria che si fonda anche, e vi sottolineo ancora una volta anche, sulle propalazioni di Scarantino… La ritrattazione di Scarantino», disse ancora Di Matteo, «deve considerarsi falsa e innanzitutto indotta… siamo in presenza di una complessa attività posta in essere per costringere il pentito a cambiare versione. D’altra parte l’avvicinamento dei collaboratori per indurli e costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nel comportamento e nella strategia che Cosa Nostra da qualche tempo pone in essere… Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario».

1999. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale – reso da Scarantino nel 1994: «Nel corso dei processi per la strage di via D’Amelio, la difesa di Scarantino ha prodotto verbali che risultano infarciti di “segnalibri” e annotazioni, con indicate circostanze, nomi e fatti diversi da quelli già narrati e poi, nei successivi suoi interrogatori, “adeguati” opportunamente». Nessuno gli rispose.
Eppure, sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura».

2008. Per far luce su via D’Amelio, 17 anni dopo la strage, compare il pentito Gaspare Spatuzza: e cambia tutto. L’uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati – Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni – diventano spazzatura, un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell’autunno 2010.

2009. Ma intanto un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, racconta ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, conferma tutto. Nel settembre successivo tocca a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che lo avevano seviziato perché dicesse il falso. Va ricordato nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto.
Nel frattempo il fronte mediatico-giudiziario dell’antimafia corre ai ripari. Scarantino viene progressivamente indicato come uno strumento innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio: e uno è paradossalmente il pm Di Matteo, che oggi istruisce il processo sulla «trattativa» e forse dovrebbe interrogare se stesso.
Dopodiché ecco, i disconoscitori di Scarantino da allora sono spuntati come funghi. Uno è Antonio Ingroia, che in un suo libro recente l’ha messa così: «Alle dichiarazioni di Scarantino non era stato acquisito alcun riscontro… Diedi incarico alla polizia giudiziaria di indagare. Quelle dichiarazioni si rivelarono non convincenti come, ormai è accertato, non lo era il teste». Ingroia parlava di altri processi, ma c’era comunque da capirci di più, forse c’era da verificare quale manovra o depistamento fossero magari in corso: ma degli esiti di queste indagini non si ha notizia. Non risulta che Ingroia abbia mai denunciato Scarantino.
Arriviamo fino a oggi e cioè al mitico processo sulla «trattativa», o meglio su una «violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio», ennesimo processo-travaso di milioni di carte, altra legna bagnata nel falò di una «trattativa» fatta non si sa da chi e per ottenere che cosa. Abbiamo qualcosa, cioè, che getta il cadavere di Borsellino ai piedi dello Stato italiano e che cerca di tirare in ballo più gente possibile, meglio se il presidente della Repubblica. Abbiamo, dal punto di vista strettamente giudiziario, vent’anni buttati nel cesso.

Da qui la domanda: chi li ha persi, questi vent’anni? Chi ha gettato al vento due decadi della vita di questo Paese, chi ha bruciato tempo e senno in dieci processi inutili che dovevano semplicemente indagare sulla morte di Paolo Borsellino? Chi, se non lo stesso pugno di procure isolane – le più imbarocchite, cervellotiche e inefficenti d’Occidente – che hanno fallito, spedito innocenti in galera, in pratica sono andate a farfalle per quindic’anni? Aspettando di saperlo, si fa di tutto per rianimare un processo che sembra nato morto. L’associazione tra «la politica» e le presunte minacce a Di Matteo è ricorrente soprattutto sulla consueta gazzetta di procura, ma va detto che la fondatezza di queste «minacce» lascia molti dubbi. La stragrande maggioranza di esse è costituita da lettere e scritti anonimi: un dossier dell’autunno 2012 con vaghe «rivelazioni» e una lettera del marzo scorso che annunciava l’eliminazione di Di Matteo «in alternativa a quella di Massimo Ciancimino», sempre evocando imprecisati ambienti romani. Il resto sono voci, deduzioni e pettegolezzi, a parte la vicenda delle «minacce» di Riina che vedremo poi.

Anche perché, a Palermo, i problemi sono altri. La stragrande maggioranza dei magistrati palermitani, in realtà, non si identifica per niente col gruppetto della «trattativa», rappresentato da cinque persone in tutto e tuttavia benedetto dal procuratore capo Francesco Messineo. Il gruppetto in questione si muove isolato, chiede e pretende solidarietà civile e mediatica, ha praticamente il suo ufficio stampa nel Fatto Quotidiano e anche di fronte alle cosiddette «minacce» a Di Matteo tende a fare spallucce. Le divisioni si sentono e sono pesanti. Ci sono divisioni che saltano all’occhio. I dissapori tra il capo della procura e Teresa Principato, il procuratore aggiunto che coordina le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro, non sono un mistero per nessuno, dovettero scriverne anche Corriere e Repubblica: difficile perciò non ricollegare queste divisioni all’assenza di Messineo dalla conferenza stampa del 12 dicembre, quando l’aggiunto Principato ha illustrato la maxi-operazione interforze che ha condotto all’arresto di cinque familiari di Messina Denaro. Ma è tutto il palazzaccio ad apparire sfilacciato. La maggioranza dei magistrati considera il processo sulla trattativa come una zavorra, un corpaccione alla perenne ricerca di doping mediatici: non ultime le citate minacce a Di Matteo di Totò Riina («un perdente», come l’ha definito pochi giorni fa Piero Grasso, facendo capire chiaramente che cosa ne pensava) le quali minacce sono state prospettate come il possibile annuncio di una neo stagione stragista, un tentativo di rialzare la tensione facendo intendere un link tra uno Stato mafioso e un processo foriero di chissà quali rivelazioni. Come se la mafia – vecchia o nuova – d’un tratto si mettesse a mandare lettere anonime e a preannunciare i suoi attentati, come non ha mai fatto nella sua storia.

La tendenza è presentare Riina come se fosse ancora il capo di Cosa Nostra. Ma Salvatore Riina detto Totò è un criminale italiano detenuto nelle patrie galere da 21 anni, capo di Cosa Nostra dal 1983 al 1992 e crudele assassino e stragista, sì. Ma è un uomo che oggi non è il capo della mafia, o di una particolare mafia, o dei reduci di una mafia recondita: è un vecchio livoroso di 84 anni che non ha praticamente nessuno che lo ascolti, eccezion fatta per le microspie e per qualche familiare con cui discute di ciliegie. Non solo non è più il capo della mafia militare e tipicamente corleonese, ma in Sicilia non risulta più esistere una mafia militare e tipicamente corleonese. Nelle conversazioni registrate in carcere tra lui e un boss di second’ordine, trasformate in «minacce» dalla mera diffusione mediatica, Riina si compiace dei propri deliri onnipotenti e soprattutto del meccanismo secondo il quale gli basta «mezza parola e se la fanno addosso». E’ un generale che non ha un esercito, la caricatura odiosa e cattiva di un’icona di vent’anni fa, uno degli spauracchi agitati da un antimafia che è rimasta ferma a quell’epoca e che cerca disperatamente di riattualizzarla, di annunciarne un possibile ritorno. La mafia di Riina è defunta e il suo è il lamento del vecchio bilioso. Ce n’è anche per Matteo Messina Denaro, il latitante, lui sì un capo: «Pensa solo all’eolico e a fare soldi». Ma il dato più eclatante è che Riina mostra di non conoscerlo, non sa praticamente chi sia. Riina il sanguinario sicuramente non ne condivide il basso profilo, la propensione a imbrigliare più che a trucidare, la tendenza a leccarsi le ferite dopo i colpi mortali subiti dalla mafia negli Anni Novanta. E il discorso vale per tutta la nuova mafia dei quarantenni, silenti e sommersi come da scuola di Bernardo Provenzano. Loro fanno affari, anche piccoli, ma capillari: hanno riabbassato – e di molto – il tiro. Una mafia sprovvista di struttura gerarchico-militare, che non si riunisce più perché i capi sono tutti in galera e i sottoposti pure, e con loro killer, estorsori, picciotti e prestanome. I sequestri di armi e droga e patrimoni economici e immobiliari hanno lasciato il segno. Le bombe e le stragi e gli omicidi seriali non ci sono più, la presa sul territorio è allentata, i traffici internazionali sono appannaggio di mafie non siciliane; i quarantenni si arrangiano col riciclaggio, la finanza, gli appalti al Nord e magari nella sanità, l’emergenza territoriale è scomparsa: ma l’antimafia continua a raccontarci un Paese eternamente in guerra, e che uno dei nostri problemi è Totò Riina.

Una parte del quadro, a Palermo, l’ha coraggiosamente riassunta Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera del 18 gennaio: «Le minacce di Riina, sostiene più di un pm, sono state utilizzate anche mediaticamente per rilegittimare un processo che era stato incrinato». Parlava del processo sulla «trattativa»: incrinato, appunto, dall’assoluzione del generale Mori per la presunta mancata cattura di Provenzano nel lontano 1995; va ricordato che Mori ora è imputato anche per la «trattativa» e che gran parte delle fonti di prova sarebbero le stesse.

Ma non è tutto qui. Tornando alle sparate senili di Riina, siccome non mi fiso dei riassunti di altri giornali – Il Fatto Quotidiano in primis – sono andato a rileggermi i brogliacci originali delle intercettazioni pagina per pagina. E le sorprese non mancano. Lette per intero e contestualizzate, certe frasi, appaiono molto diverse da certi titoli sparati su stampa e televisione.
Anzitutto va ripetuto che Riina – a molti potrebbe essere sfuggito, visto che all’inizio non era chiaro – pronuncia le sue «minacce» ben consapevole di essere intercettato: lo dimostra il passeggio del 13 novembre.

Alberto Lorusso: «Stamattina è uscita la notizia vostra… Riina minaccia il pm Di Matteo».
Riina: «Sentono le parole di qua? (con la mano sinistra indica verso la telecamera)».
Lorusso: «E stanno vedendo se mandare una protezione seria a Di Matteo».
Riina: «Ma come minaccio, come minaccio (ride ironicamente), io non sono a 41bis?».
Lorusso: …un pentito dice che è arrivata la polvere da sparo per lui».
Riina: «Ah, un pentito… eh, certo… hanno sempre gatte da pettinare, non sono mai tranquilli, mai».
Lorusso: «Per mantenere viva la situazione… ».

Il giorno dopo, 14 novembre, Riina dice che di Di Matteo gli importa assai poco: «Ma minchia è questo Di Matteo… gli vorrei chiedere: ma chi minchia è, me lo vuoi dire chi minchia è?… Per me, un pelo di coglioni è… fanno propaganda loro, fanno tutte queste cose loro… ».
Sempre quel giorno (pagina 10 delle intercettazioni) Lorusso racconta ancora a Riina: «Altri telegiornali poi dicono che la guardia ha sentito dirvi a voi queste cose ed ha relazionato … altri telegiornali dicono che voi gridavate a un altro detenuto questo fatto che voi volevate uccidere Di Matteo». E Riina che fa? Ride. Si legge proprio così: «Ride». Poi ancora (pagina 17) Lorusso su Di Matteo: «Stanno vedendo per darle (dargli, ndr) un rifugio segreto, per metterlo in un rifugio segreto… ». Riina: «Ah, lo debbono mettere in un rifugio segreto, mannaggia la morte… ride». Lorusso: «Lo ha detto la televisione». Riina: «Ninci parla più nessuno con questo… ride…. povero giudice… ». Lorusso: come voi avete detto: ma chi minchia è…. subito gli hanno dato la località segreta. Dite mezza parola e questi… ».

Insomma, Riina mostra verso Di Matteo lo stesso atteggiamento che mostrava verso Matteo Messina Denaro: mostra di non conoscerlo, non sa praticamente chi sia. E si compiace che le sue parole di 83enne rinchiuso al 41bis abbiano tanto effetto mediatico.
Due giorni dopo, il 16 novembre – eccoci – Riina «minaccia» Di Matteo a mezzo di un dialogo che va riportato per esteso.
Lorusso: «Ma secondo me questi vogliono mantenere sempre viva la lotta alla mafia, sempre vivo la situazione…».
Riina: «Sì, sì…».
Lorusso: «Allora ci bombardano di queste notizie, di questi pericoli, di queste cose ci fanno bombardamento». Riina: «E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più».
Nota: sarebbe utile sentire anche il tono con cui Riina pronuncia la frase, perché ha tutta l’aria di una canzonatura. Dopodiché Riina esterna più che altro la sua impotenza: «Ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile (incomprensibile) ucciderlo (incomprensibile) una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari… ».

Poi c’è la questione del papello, ossia le richieste che Cosa nostra avrebbe fatto allo Stato per bloccare i massacri dal 1992 in poi. La maggioranza dei giornali ha riportato questa frase del 13 agosto, pagina 7 delle intercettazioni: «La cosa si fermò, tre quattro mesi…. ma non è che si è fermata… comunque… io l’appunto gliel’ho lasciato». Che appunto? E a chi? Non è chiaro, ma è chiarissimo che gli stessi giornali non sono stati interessati ad altre parti del colloquio, se non con taglia e cuci non sempre giustificati. Nel passeggio dell’8 novembre, Riina dice: «Una partita di sbirri c’è… i tragediatori. Giovanni Brusca dice che io gli ho detto… Brusca fa una dichiarazione cattiva, “mi ha detto Riina che gli ha presentato il papello”, ma questo papello non si trova, non c’è… sono andati a fare tutte le indagini sui miei figli, le mie sorelle, a mia moglie, a mia madre…».
Lorusso: «E non hanno trovato nessun riscontro…».
Riina: «A mio fratello, a tutti, ai bambini… non risulta, non risulta… perciò questo (Giovanni Brusca, ndr) è un pallista, è un pallista che io gli ho detto questo, questo papello, questo papello… gli ho detto: interessati per tuo padre, no che gli ho dato il papello».
Al minuto 44 dell’intercettazione, poi, Riina dice che «il papello fu una cosa detta da lui (Brusca, ndr) e studiata da lui, sentimento suo», mentre Lorusso aggiunge: «Ciancimino, padre e figlio, fotocopia di qua e di là… normografo… ha fatto un collage e solo un collage…».
Riina aveva parlato di Massimo Ciancimino anche il giorno prima, 12 agosto: «“Io, mio padre, il colonnello Mori convincemmo a Provenzano a far arrestare Riina”. Ma santo cielo… tu, tu Ciancimino, sei un folle in catene, tu sei un folle in catene…». Riina demolisce, cioè, uno dei pilastri della «trattativa» cara ad Antonio Ingroia e Nino Di Matteo.
Il quale Di Matteo è stato il primo a tradurre i deliri di Riina in termini di sicura condanna a morte: «Se mi torcono un capello, questa volta c’è la prova, è lì…». E tutto è successo «quando, anche dopo il rinvio a giudizio, abbiamo deciso di non fermarci con l’inchiesta». Quella sulla trattativa.

Una trattativa derisa sempre da loro, Lorusso e Riina, nel loro passeggio dell’8 novembre.
Lorusso: «Diceva che c’era un connubio tra politica e mafia… Non c’era nessuna trattativa, non è che c’era una trattativa, in passato… ».
Riina: «Sì, sì… ». Lorusso: «C’era una connivenza, così, tra mafia e politica, quando poi la politica ha tradito l’ha mafia l’ha punito… questo era… c’era una connivenza come c’è sempre stata in tutto il mondo tra politica e mafia… Questo è quello che ruota in tutto il castello accusatorio della trattativa stato-mafia. Se invece si deve dire che c’era la trattativa stato-mafia… allora…».
Riina: «No, ma non c’è… chi c’è andato a trattare?… Quello è stato assolto un sacco di volte… il generale…».
Lorusso: «Il generale… Mori».
Riina: «E’ Mori, noialtri, non è che ci fa di arbitro».

Poi – si legge a pagina 19 – non si sente più niente per via del rumore: pare sia partito un tagliaerba lì vicino, fuori dal carcere di Opera.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera