Traviati

Riproporre La Traviata come prima della Scala pare una scelta crudelmente azzeccata o come si dice: emblematica, al limite del masochismo. L’arte la interpreti come ti pare: l’ineffabile sovrintendente Stéphane Lissner per esempio ha definito la stagione scaligera «di proposte e non di immagine», e molto vi sarebbe da dire sulla valenza geriatrica delle proposte. Ma a noi, ora, interessa l’immagine. La nostra. Ci interessa il riflesso, pur deformato, che lo specchio del Teatro rimanda alla società del suo tempo. Bene: occorre essere ciechi per non intravedere la crisi italiana – economica, politica, culturale – che la Traviata mette in scena nel suo tempo indefinito, non intravedere cioè il declino borghese che oggi è traslato nel mitico ceto medio, non intravedere – nell’era dell’euro e della sovranità evanescente – il disincanto di un Verdi che era, ormai, il meno patriottico possibile, ritirato, interessato a piantar alberi nel suo terreno a Sant’Agata, mentre dall’estero e in particolare dalla Germania – Wagner – bussava l’opera dell’avvenire.

Soprattutto sarà dura, sabato sera, nella consueta cornice lorsignori/contestatori, non intravedere il paradosso finale del Palazzo e della sua separatezza; oltre ai presidenti della Repubblica e del Senato, infatti, non mancherà anche la simbolica presidente della Camera Laura Boldrini, la marchigiana a veder la cortigiana: mentre fuori, a contestare, non mancherà neppure una scontata rappresentanza del partito che l’ha votata, Sel.

Forzature? Per niente: è una comparazione ovvia di cui non s’accorge solo chi non conosce La Traviata o la conosce troppo bene. Questa è la Traviata del 2013 e traviata è l’Italia, traviata da se stessa, dalla crisi che nell’opera manda in scena una borghesia ipocrita e dapprima opulenta, sopra le proprie possibilità: e poi termina, nell’ultimo atto, in una casa disadorna, svuotata di mobili e cimeli svenduti. Eccolo il famoso declino. L’aria più celebre della Traviata del resto è «Addio al passato». Intanto sul proscenio si alternano valzer, brindisi, i zum-pa-pa odiati dagli antiverdiani (come lo scrivente) e storie d’amore, d’amorazzi, di feste, di gossip, di sbevazzate e di soldi. Un’opera così italiana che Verdi fu ispirato da un libretto francese.

Non conta se La Traviata sia ambientata a Parigi (come dovrebbe essere) oppure a Roma (come potrebbe essere) oppure a Istanbul (come al San Carlo l’anno scorso: da arrestarli) e non conta neppure se sia ambientata a metà Ottocento o nella Bell’Epoque o nel barocco Seicentesco: rimanda comunque a un tardissimo impero, a un cafonal danzante nel declino morale, a un Paese che espone in vetrina una Traviata che, a sua volta, suona come souvenir d’Italie, come se all’ingresso di Venezia suonassero Le quattro stagioni di Vivaldi, come se a Napoli il mandolino. La Traviata oggi ci rappresenta come il mangiar bene, l’eleganza e, appunto, il belcanto. A Hollywood continueranno a premiare le pellicole in cui siamo un po’ ladri di biciclette e un po’ meridionali. E alla Scala continueranno a spellarsi le mani per la Traviata.

Il Verdi della Traviata aveva poco di risorgimentale e poco di patriottico: se ne stava a San’Agata con Giuseppina Strepponi, che quando la gente la vedeva (la gente, le infinite famiglie Germont di questo Paese) cambiava marciapiede perché lei non era politically correct, non era sposata. E dire che Verdi, la sua versione della Traviata, l’aveva pure edulcorata: Violetta, cioè la traviata, alla fine si sacrifica per salvare il decoro familiare del suo amante: vuole «gioir, sempre libera». Sinché non sopraggiunga la vecchiaia e il modello smetta di reggere: e vai di metafora. Il libretto originale, quello francese di Dumas, racconta oltretutto una storia più spinta: Violetta in realtà ha un tenore di vita talmente alto che un amante solo non bastererebbe, e infatti ne ha quattro, e vuole tenerseli. E Alfredo accetta. Se la tiene così, sissignori: libera e cortigiana, ambigua, innamorata dell’amore e dei soldi, scopata praticamente da tutti. Qui passa lo straniero: e vai di metafora. A veder La Traviata, notoriamente, si piange.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera