Perché votano un frodatore fiscale

C’è una domanda a cui pochi hanno il fegato di rispondere davvero, e non occorre rispolverare un «caso Maradona» per porsela ancora una volta e trasformarla in polemica politica. La domanda è questa: come mai tanti italiani sostengono ancor oggi un evasore fiscale? Com’è possibile che la condanna definitiva di Silvio Berlusconi non comporti un crollo verticale dei suoi consensi? Lo credono innocente? Non credono nello Stato di diritto? Forse non credono alle sentenze e, viceversa, credono al complotto delle toghe rosse? La domanda non è nuova e se ne riparlerà altre mille volte: del resto altre condotte berlusconiane, in passato, avevano sollevato dubbi analoghi. La risposta di molti commentatori benpensanti ha sempre posto l’accento su un supposto processo di identificazione tra leader e popolo: il popolo, cioè, si sarebbe immedesimato in Berlusconi in quanto, come lui, sarebbe sospinto da un’inguaribile allergia alle regole; l’indulgenza verso il Cavaliere sarebbe quindi un’indulgenza verso se stessi e verso una sostanziale impunità che tanti italiani sperano sia anche loro. Per dirla malissimo: perdonano Berlusconi, evasore, perché sono degli evasori.

Ora: il ragionamento non è sbagliato in assoluto, ma qualsiasi analista dei dati, o studioso dei flussi elettorali, lo demolirebbe spiegando che l’evasione purtroppo è diffusa a destra come a sinistra, e che, in ogni caso, i pur numerosi frodatori italiani non basterebbero a giustificare la mole di voti che il Cavaliere ha ricevuto e in parte riceverebbe ancora. Si parla, ovviamente, di frodatori seri. Gli stessi studiosi – di destra come di sinistra, beninteso – non avrebbero difficoltà a spiegare che un processo di identificazione tuttavia c’è, ed è da sempre alla base del successo berlusconiano: ma non è un’identificazione tra un popolo e il Berlusconi impunito, è tra un popolo e il Berlusconi «vittima».

La spiegazione di questo riposa su una serie di messaggi che il Cavaliere ha lanciato al suo «popolo» sin dagli esordi in politica. Data per acquisita l’identificazione con Berlusconi di una parte della società civile (quella che apprezza l’outsider, il self made man, l’imprenditore vincente che crea lavoro e ricchezza) il Cavaliere non si è mai rivolto agli italiani come a un popolo da correggere in quanto naturalmente evasore, o avido o sprovvisto di senso civico: gli si è rivolto come a un popolo costretto a fronteggiare leggi e fiscalità punitive, astruse, irragionevoli e indecifrabili. E con questo, Berlusconi, ha sempre saputo di cogliere facilmente nel segno. Nei suoi discorsi degli ultimi vent’anni, di cui si trova ampia traccia su internet, non troverete mai apologie di reato o vere giustificazioni dell’evasione fiscale: troverete l’ammissione che abbassare le tasse e migliorare le norme forse aiuterebbe gli italiani a pagare il giusto. È un discorso che può convincere o meno, ma che durante il Tax day del 1999, per esempio, tracciò un solco: «Promettono di ridurre la pressione fiscale, ma la promessa è legata a un possibile decremento dell’evasione: hanno capovolto il problema. Noi abbiamo sempre detto che le aliquote del fisco italiano, che non si fida dei contribuenti, sono fissate pensando che i contribuenti denuncino solo metà del loro reddito. E allora lo Stato, partendo da questa considerazione di sfiducia, che cosa fa? Impone aliquote elevatissime, pensando: ti tasso il doppio perché tu denunci la metà».

Gli italiani – questo il messaggio – rispetteranno le leggi quando le leggi rispetteranno loro e, nondimeno, quando le tasse pagate garantiranno dei servizi degni di questo nome. Non hanno bisogno, gli italiani, di essere raddrizzati, sorvegliati, puniti; anche i concordati e gli scudi fiscali – piacciano o meno, anche questi – furono proposti con l’obiettivo di far cassa, certo, ma anche di ricreare fiducia tra Stato e cittadino.

Il processo di identificazione tra le presunte «vittime» (Berlusconi e gli italiani) prosegue anche nell’individuazione del nemico: cioè lo Stato protervo, diffidente, sopraffatore, oppressore, un sordo potere pubblico che nel caso di Berlusconi prende anche le forme della magistratura o di una parte di essa, impegnata a vessarlo con una spaventosa quantità di indagini e perquisizioni che peraltro sono innegabili. Tanti italiani vedono o percepiscono questo: non gli interessa perdersi tra le lapidarie e sfuggenti motivazioni di una sentenza della Cassazione, non pensano che qualche remoto paradiso fiscale abbia sostanzialmente impedito a Berlusconi di pagare comunque milioni di euro di tasse e di creare opportunità che prima non c’erano. A complicare le cose, oltretutto, c’è che le motivazioni della sentenza che ha condannato Berlusconi sono sfuggenti per davvero. Basta leggerle: sono dense di asserzioni e di «prove logiche» che certo non bastano a spazzare via dalla scena il leader che seguita a rappresentare l’intero centrodestra, a torto o a ragione. L’unico capace di spazzar via dalla scena Berlusconi, ancor oggi, parrebbe Berlusconi.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera