Marco Travaglio e l’interpretazione della legge

Fantastico, Marco Travaglio e i pentastellati hanno scoperto la giurisprudenza. Il nostro laureato in filosofia, dopo aver copiato milioni di sentenze, ha scoperto che esiste una «interpretazione della legge» come quella che dal 1957 ha riguardato la 361, la norma sull’incandidabilità dei titolari di concessioni statali, quella che – effettivamente – avrebbe dovuto impedire a Berlusconi di candidarsi.

A corto di bersagli, il nostro cabarettista se l’è presa con il giurista Michele Ainis che sul Corriere l’aveva messa così: «Nel diritto parlamentare ogni errore reiterato si trasforma in verità». E questa è una «solennissima corbelleria», secondo Travaglio: il quale ignora, per cominciare, che il suo amicone Gustavo Zagrebelsky (costituzionalista come Ainis) aveva espresso concetti identici a Piazza Pulita di lunedì scorso. Ignora che ciò non accade nel diritto parlamentare: accade nel diritto e basta. Finge di ignorare, soprattutto, che la giurisprudenza – intesa come facoltà d’interpretare una legge sino a stravolgerla o spesso a rovesciarne i propositi iniziali – è esattamente quella che negli ultimi 24 anni ha permesso ai suoi amici magistrati e ai loro addetti stampa d’interpretare la legge a loro uso e consumo, fottendosene delle velleità del legislatore e tradendo lo spirito di chi elaborò il Codice penale del 1989.

Ma, soprattutto, facendo perdere un sacco di tempo a tutti: perché in Italia si biascica sempre di «riforma della Giustizia» come se servissero nuove regole per sostituire quelle vecchie, ma è falso, le nuove regole servono soltanto per rendere inequivoca l’applicazione di quelle vecchie: che da principio andavano benissimo, ma che i magistrati hanno stravolto con la prassi, la giurisprudenza, la corte di Cassazione e la Corte Costituzionale.

Facciamo degli esempi? Se v’interessano leggete.
La semplificazione dei riti: era già contenuta nel Codice del 1989.
La terzietà del giudice e la pari dignità giuridica dell’avvocato e del pubblico ministero: era l’ossatura fondamentale dello stesso Codice del 1989, col processo accusatorio che avrebbe dovuto soppiantare l’inquisitorio; la differenziazione delle carriere ne era l’ovvia conseguenza.

La responsabilità dei magistrati che commettano errori gravi: quella norma l’abbiamo votata nel referendum del 1987, ma è restata lettera morta. È anche colpa dei politici, certo, sta di fatto che il giudizio nei confronti dei magistrati passa per 9 gradi (3 per l’ammissibilità, 3 per le responsabilità, 3 per la rivalsa dello Stato) tanto che in 25 anni – dati dell’anno scorso – sono state ammesse solo 34 cause e le condanne sono solo 4.

E le intercettazioni, il segreto istruttorio? Il Codice di procedura del 1989, agli articoli 114 e 329, metteva nero su bianco le stesse novità che il centrodestra (ma anche il centrosinistra, in realtà) vorrebbe reintrodurre e che fanno gridare «bavaglio» ai poveretti. Il vicepresidente del Csm, nel 1992, diceva: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Il professor Giandomenico Pisapia, relatore del Nuovo Codice, chiarì che «è il processo che è pubblico, non le indagini. Il Nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare l’indagato».
E la carcerazione preventiva, allora? Doveva essere «l’extrema ratio»: spiegatelo ai giudici della stagione di Mani Pulite.

Anzi spiegatelo a Travaglio, che se la prende col professor Ainis soltanto perché non è amico suo: «Per i giuristi come lui il rispetto delle leggi non è un valore», ha scritto, fingendo abilmente di essere ignorante. Ma se la prenda con la categoria da lui tanto amata, quella che il Codice l’ha fatto a pezzi. Fu la magistratura a usare Antonio Di Pietro come ariete e a operare una contro-legislazione dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida fatta da una classe politica spaventata dalla strage di Capaci (la riforma dell’articolo 371, che consentiva l’arresto per reticenza) di fatto ristabilirono e rafforzarono lo strapotere delle indagini preliminari.

Altro che processo alla Perry Mason, altro che parità tra avvocato e pubblico ministero, altro che prova che si formi rigorosamente in aula: ai pubblici ministeri tornò a essere sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli meramente in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm prese a dipendere cioè dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La riforma costituzionale dell’articolo 513, nel 1999 – cioè ben dieci anni dopo l’entrata in vigore del Codice – ristabilì proprio il principio chiave che Mani Pulite aveva fatto a pezzi, ma appunto, per rimettere in riga i magistrati ci volle una riforma della Costituzione.

Non è neppure un caso che nel Codice del 1989 il famigerato «concorso esterno in associazione mafiosa» non esista proprio: è diventato la libera somma di due ipotesi di reato (il «concorso» previsto dall’art.110 e l’«associazione mafiosa» prevista dall’art. 416 bis) a mezzo del quale la magistratura ha ritenuto di colmare una lacuna legislativa: col risultato, noto, di aver creato una configurazione molto generica le cui applicazioni sono continuamente reinventate e stilizzate dalle sentenze appunto della Cassazione, e questo ben fregandosene dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo (come fecero con la sentenza Mannino del 2005, quella che il pm Antonio Ingroia, secondo il procuratore della Cassazione, nel processo Dell’Utri ha finto che non esistesse).

Gli esempi sarebbero milioni, ma il problema secondo Travaglio è solo la legge del 1957 da riesumare nella sua interpretazione originale, così da cacciare Berlusconi in barba alla giurisprudenza – paracula – che negli ultimi vent’anni ha permesso al Cavaliere di fare politica con il placet dell’opposizione. I principi non si barattano, ma per una volta si potrebbe proporre uno scambio: gli diamo Berlusconi e loro ci restituiscono il Codice, la giustizia, questo nodo che angustia il Paese da decenni, questa zeppa sulla strada del Paese normale.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera