Difendere Fabrizio Corona

Non c’entra fare i bastiancontrari, non c’entra che «qualcuno deve pur farlo» e queste cose. Fabrizio Corona ha spacciato banconote false, è indagato per bancarotta, ha malmenato agenti di polizia, ha corrotto un secondino per far entrare in cella una macchina fotografica, forse ha emesso fatture false, addirittura è indagato per «guida con il foglio rosa ma senza guidatore esperto accanto», tanto per chiarire che nulla gli sarà perdonato. Un punto che m’interessa infatti è questo: che nulla gli sarà perdonato. In secondo luogo m’interessa comprendere l’odio – spesso travestito da snobismo, o falsa commiserazione – che lo circonda. Biasimarlo m’interessa meno per due ragioni: la prima è che le tribune tipicamente sono già tutte occupate, la seconda è che l’ho conosciuto e l’ho trovato – lo trovo – di un’intelligenza non comune nonché – tenetevi forte – umile. Le derive della spavalderia e del delirio di onnipotenza non sono la sua essenza. A bocce ferme – ma le bocce ferme non interessano a nessuno, anche questo è un punto – Fabrizio Corona è una persona che rimpiange di non avere una certa cultura («è una cosa che mi manca») e soprattutto non c’è occasione in cui non ripeta, alle folle degli invasati imbecilli che lo osannano: «Non fate le cazzate che ho fatto io».

Detto questo, tra un po’ scriveranno pure che Corona ha il parrucchino e il fallo di plastica, che non sa fare di calcolo, che aveva i muscoli gonfiati a elio. Sarebbe interessante fare una descrizione fisica e temperamentale di alcuni dei giornalisti che hanno sentito il bisogno di infierire su di lui, dunque cercare di ridicolizzarlo, smitizzarlo, umiliarlo, pietrificarlo come una mammoletta lacrimante. Molti di questi scrivani, gente che ha la forfora sulla giacca e non ha mai visto il mondo reale neppure per sbaglio, non saprebbero neppure ribellarsi a un cafone che li sorpassi nella fila. Infieriscono su Corona con un’impietosità che va oltre il conformismo in cui inzuppano il pane ogni mattino, oltre la loro vocazione di accondiscendere alla furia del popolino perbenista o frustrato.

Il dato rivelatore non è il loro biasimo nel descrivere ciò che Corona è, ma il loro impegno nel descrivere ciò che non è, a loro dire, e non è mai stato: Corona non è coraggioso, non è un mito, non è un eroe neanche negativo, non è un coerente, non è un maledetto, non ha il rango del vero criminale, non è neppure bello. Ma quando di un personaggio dicono questo, spesso è perché un personaggio lo è davvero. E lui lo resta, nel caso, a dispetto del vile esercito proteso a dire che Corona non era Corona, che la leggenda era una patacca, l’eroe solo una macchietta, un pirla, un vigliacco, un fuggiasco senza statura. Figurarsi, in questo quadro, quanti abbiano voglia di ricordare che la sua condanna a cinque anni per estorsione fa acqua da tutte le parti, non sta in piedi neanche con lo sputo: anche perché l’estorto del caso – un calciatore – non si dichiara tale, anzi, ringrazia pubblicamente l’estorsore. Evocare il complotto e dire che il sistema «gliel’ha fatta pagare» suona come una banalità inaccettabile, ma in questo caso credo che corrisponda alla sostanziale verità. È normale che una società consolidata, a un certo punto, espella i Corona.

La ragione è semplice e indicibile al tempo stesso. Da una parte Corona ha commesso dei reati: e basterebbe. Uno come lui, dall’altra, rischia di rappresentare la trasfigurazione di ciò che milioni di cittadini vorrebbero ma non possono essere: sia perché non ci sono portati, sia perché il sistema, appunto, crollerebbe. Delle fotografie di Corona a David Trezeguet non importa niente a nessuno: è un altro il Corona amato e odiato, è quello che sfreccia a 200 all’ora, che parcheggia dove capita perché si vive una volta sola, che guida senza patente, che mette le mani addosso al vigile stronzo, che dice tutto quello che gli passa per la testa, che corrompe una guardia per dimostrare che in carcere può entrare ogni cosa, che declina tutti i cerimoniali della falsa modestia, che nel caso evade le tasse, che è pure intelligente e sputtana i giornalisti, che fa tutto questo, peraltro, con eserciti di ragazzine al seguito e portandosi a letto le mejo fiche del bigoncio. È questa la sua innegabile pericolosità sociale. Tanti atteggiamenti e reati di Corona sono sue insofferenze «liberate» che ciascuno di noi, invece, tiene faticosamente in gabbia per dovere civico o per vigliaccheria: è questo che non gli perdoniamo. Noi non gli perdoniamo il nostro affanno quotidiano che lui, spesso, ha evitato bellamente con quell’espressione da impunito. Ora, finalmente, è punito. Ma non sarebbe in galera, se fosse un bluff: ci è finito perché è Corona, schiavizzato dalla sua autenticità, parzialmente depresso come tutte le persone tremendamente vive, furbastro, canaglia, zero inconscio e zero somatizzazioni. Come uno Sgarbi, a tratti. Come il Bill Foster di «Un giorno di ordinaria follia», quello che alberga in milioni di cittadini e che s’incazza, un bel giorno, contro tutte le assurdità dei tempi moderni che siamo costretti a patire. Ma anche Foster finisce male, alla fine.

P.S. Non cedete alla tentazione di tirare in ballo Berlusconi e di contabilizzare Corona tra i cascami della sua era: è una sciocchezza, perché Berlusconi bene o male è sempre stato un vincente. C’è un’intercettazione telefonica, del 2009, in cui il Cavaliere dice male di Belen perché «una che si mette con questo qua non ha cervello». Perché Corona è un perdente, e prima o poi andrà a sbattere. Ci è andato. Lo prevedeva il copione e l’apparato che l’ha prodotto. Non sappiamo se lo prevedesse lui.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera